E’ impossibile la pace?

Se vogliamo sconfiggere il terrore alla radice dobbiamo fare l’esatto contrario di quello che ogni giorno questo terrore ci suggerisce. Una riflessione dopo i fatti di Parigi

Ieri mentre l’intera Europa e il mondo guardavano a Parigi e ai milioni di persone in piazza, alle finestre, ai caffè sui boulevards e custodivano nel cuore lo sgomento per i venti francesi uccisi nei diversi luoghi della città e della periferia, in particolare verso gli ebrei, mi sono ritornate alla mente le parole di Gesù nel vangelo di Luca, al cap.13: «Se non vi convertite, perirete tutti». In particolare alcuni chiedono a Gesù di quei Galilei il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici. Questi Galilei erano stati uccisi dalla violenza del mondo, come erano stati uccisi dall’Erode di turno tutti i bambini di Betlemme al di sotto dei due anni, per essere sicuri di colpire il Messia.

Gesù non entra nella analisi sociologica e politica, ma dà un’altra chiave, la stessa che può aiutarci a spiegare la strage di Parigi e tutte le stragi che ogni giorno accadono ai punti estremi della Terra. Quelle stragi che rimandano all’Erode di turno. Gesù dice con forza: «Se non vi convertite, perirete tutti. Il verbo è al presente: oggi, ora questa conversione è chiamata a cambiare la storia. È possibile cambiare la storia se cambiamo il nostro cuore, la nostra vita oggi, ora, subito».

Il presidente Holland ha parlato di Parigi come la capitale del mondo. Al di là di un velo di retorica, si è capitale del mondo se la pace è l’identità della nostra politica, in ogni luogo, in ogni Paese, in ogni continente. Questo vale per Holland, ma anche per tutti i leaders politici convenuti a Parigi per dare al mondo  quel segnale di unità, che la gente di Parigi domanda. Questa unità domanda di uscire dai nostri interessi economici, commerciali e politici, per una grande visione di mondialità, che sia in grado di trovare soluzione efficace e intelligente ai conflitti, dove i diritti e i doveri di tutti i popoli siano rispettati e riconosciuti.

Se il pericolo è cosi estremo, come tutti hanno visto, è impossibile fare pace tra Israele e Palestina? È impossibile che Abu Mazen e Netanyahu  si possano stringere la mano, di fronte a quel massacro che aveva in sé anche il seme tragico dell’antisemitismo?

Ecco la prima misura di quella conversione a cui chiama Gesù: la pace tra Israele e Palestina, lo stringersi la mano tra i due governi. È inutile andare a Parigi se poi non si fa la pace, se non si considerano nostri figli i figli di Gaza e i cinque rabbini massacrati in Sinagoga questa estate, se il dolore degli innocenti  non è universale. La Tunisia e la sua costituzione approvata un anno fa mostrano che è possibile andare oltre i fondamentalismi, per una nuova libertà religiosa e per un nuovo rapporto tra islam e democrazia. Il discorso di Al Sisi mostra che nuove strade si aprono anche nella cultura e nella civiltà araba e musulmana.

Sta a noi essere interlocutori credibili e convinti di un passaggio epocale. Scriveva in questi giorni il giurista Gustavo Zagrebelsky: «C’è poco da stupirsi se la globalizzazione anarchica  non ha promosso la pace, ma ha diffuso la violenza. Il mondo è una grande scorribanda: poteri economici, finanziari e tecnologici mossi da inesausta e cieca volontà di potenza; organizzazioni criminali che controllano interi settori di attività illegali; circolazione illimitata di armi micidiali che alimenta i conflitti».

Un quadro terribile, che davvero domanda una conversione profonda radicale e mite della politica. In questo anno in cui celebriamo il 70° anniversario della nascita delle “Nazioni Unite”, la politica si deve domandare se la sua debolezza vera e il suo fallimento evidente non stiano  proprio nella legittimazione della violenza e della guerra. Le grandi religioni monoteiste si devono chiedere in quanti e quali modi abbiano sostenuto   la cultura della paura e del conflitto. Quella paura e quel conflitto che ormai sembrano albergare nel cuore di ciascuno e che tendono a trasformare le nostre case e le nostre città in fortezze.

Se vogliamo sconfiggere il terrore alla radice dobbiamo fare l’esatto contrario di quello che ogni giorno questo terrore ci suggerisce. La partita, prima che essere repressiva, è culturale e spirituale. Tocca alla politica e alle grandi religioni di cambiare passo, evitando la militarizzazione delle nostre società, primo e unico obiettivo della politica del terrore. Un terrore che viene da lontano, dalla prima guerra del Golfo, ormai venticinque anni fa. Quella guerra ha alimentato i giacimenti dell’odio e ha convinto, se pure ce ne fosse stato bisogno, l’islamismo radicale a tenere sotto scacco l’occidente.

Parafrasando una frase di uno scrittore, si potrebbe dire che «guerreggiando,alla guerra si apre il cammino». Ecco l’errore che l’occidente deve riconoscere per poi rifiutarlo nelle sue politiche. Ecco la conversione, il cambiamento dell’orizzonte e, infine, un nuovo senso della storia. In questo passaggio ciascuno di noi è coinvolto senza temere di diventare periferia, senza gioire nel voler restare al centro a tutti i costi. Le nostre armi non sono i kalashnikov, da comprare a qualunque supermercato del terrore, sono  armi più delicate, perché inscritte nel nostro cuore: la cooperazione, il dialogo l’incontro, la pace, parola amatissima da papa Francesco. Sono parole forti, non deboli, sono parole coraggiose, non codarde. Queste parole, vissute nella intelligenza dei tempi, hanno la forza di realizzare ciò che annunciano e dunque sono capaci di cambiare la storia, ben di più di una politica astuta e violenta. Ecco il realismo del vangelo, che spezza la cultura dello scarto, che appare come l’unica cultura che domina oggi questo tempo di tenebre.

Queste parole aiutano la sentinella, che vigila nella notte, a discernere l’aurora di un tempo nuovo che sta per nascere, un tempo in cui i bambini, di ogni religione, di ogni nazione di ogni cultura, non siano uccisi dall’Erode di turno, ma possano volare come degli angeli, per dire a tutti la parola della pace.

 

 

 

 

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