E giunse infine il B-Day
Colpi di coda. Il Cavaliere, dal palco del Palacongressi, lancia l’ultima provocazione a Napolitano: «Dovrebbe essere il capo dello Stato a concedermi la grazia; io non la chiederò mai». Poi annuncia una grande manifestazione di sostenitori in Piazza del Plebiscito (dalla sede di Forza Italia sarebbe già partita l’organizzazione dei pullman). Ancora, anticipa la pubblicizzazione di “carte rivelatrici” provenienti dagli USA che, a suo dire, proverebbero la sua innocenza: e su questo intende dar vita ad un tam tam mediatico sulle sue reti. E questo mentre Napolitano affida ad una nota del Qurinale il rifiuto della grazia, specificando che non sussistono “le condizioni per un eventuale intervento del capo dello Stato sulla base della Costituzione”.
A Palazzo Madama sarà bolgia. In SenatoBerlusconi siprepara a pronunciare un discorso ‘epocale’ (il suo ultimo da parlamentare?), che metta spalle al muro le forze politiche, di fronte alla «responsabilità – afferma – di qualcosa di cui si dovranno vergognare per sempre». Il dibattito si preannuncia rovente, ma non sposterà minimamente le posizioni dei gruppi politici, che appaiono in gran parte consolidate.
Se la modalità fosse stata quella del “voto segreto”(comunemente utilizzata nei casi riguardanti persone e rigettata con una modifica al Regolamento del Senato, che ha destato perplessità e lasciato strascichi), non ci avventureremmo di certo nell’azzardare previsioni sull’esito della votazione, avvezzi come siamo alle ‘sorprese’ che scaturiscono dalle urne quando vige l’anonimato: non sempre frutto di scelte dettate da “libertà di coscienza” (circostanza accettabile) quanto piuttosto da inciuci carsici, compromessi, vendette trasversali di “franchi tiratori” (circostanza esecrabile). L’elezione del capo dello Stato (con gli impallinamenti da presunto ‘fuoco amico’ subiti prima da Marini e poi da Prodi) ne sono la testimonianza più recente.
Ma si è scelta la strada del “voto palese”, che, in un contesto di “nominati by Porcellum” (etero-controllati e soggetti al ricatto della non-ricandidatura alle successive elezioni), difficilmente darà luogo a sorprese.
I gruppi parlamentari voteranno presumibilmente compatti, secondo le appartenenze prossime al Cavaliere e quelle dichiaratamente da lui distanti, con la forza numerica di questi schieramenti, che troveranno – c’è da giurarci – una conferma pressocché totale nel risultato finale.
Questi i numeri. La composizione del Senato conta, in atto, 321 membri (inclusi gli eletti nelle circoscrizioni estere ed i senatori a vita). La maggioranza è quindi di 161 senatori, suddivisi in 8 gruppi parlamentari.
I voti contrari alla decadenza di Berlusconi, sono dichiaratamente almeno 117 : quelli dell’ex–Pdl (FI e Nuovo Centrodestra), del Gruppo GAL e della Lega nord.
I voti favorevoli alla decadenza del Cavaliere, sono dichiaratamente almeno 165 : quelli del Pd, di Sel e dei 5 Stelle.
I rimanenti 39 voti – comunque si orientino – appaiono ininfluenti per modificare questi equilibri. Anche nel caso che dovessero tutti confluire a favore della non-decadenza (ipotesi francamente improbabile), farebbero raggiungere la cifra di 156, comunque inferiore ai voti potenziali dei favorevoli alla decadenza.
Fra questi senatori non dichiaratamente “schierati”, in ogni caso, consideriamo in libera uscita, dopo la frattura recentemente consumatasi al suo interno, i 20 voti di Scelta Civica, cui vanno aggiunti i 10 voti del Gruppo delle autonomie ed i 9 residui del Gruppo misto (tolti i 7 di Sel già computati tra i favorevoli alla decadenza) che comprende anche i 6 senatori a vita.
Dunque: escludendo crisi di coscienza (sempre da tenere in conto) o tsunami trasformistici dell’ultima ora, nonché assenze in massa alla seduta di senatori/senatrici per motivi di salute o gravidanze a rischio, dichiarazioni di distinguo ed astensioni (che al Senato si aggiungono ai voti contrari), la decadenza di Berlusconi da senatore dovrebbe essere scontata. Senza se e senza ma.
Le ripercussioni sull’esecutivo. Annunciata (e quindi data per certa), in questa eventualità, l’uscita di Forza Italia dalla maggioranza che sostiene il governo Letta ed il suo passaggio all’opposizione, la permanenza nell’esecutivo dei ministri dell’ex-Pdl e la costituzione dei nuovi gruppi autonomi di Nuovo centrodestra alla Camera ed al Senato che continueranno a far parte della maggioranza, dovrebbe garantire senza traumi la prosecuzione della vita dell’esecutivo. Magari con maggiore trasparenza: le “larghe intese” diverranno le “chiare intese”.
I mutati rapporti numerici sia alla Camera che al Senato, infatti, non modificheranno sensibilmente la consistenza della maggioranza nei confronti dell’opposizione (che, con il gruppo di Forza Italia, si accrescerà di circa 40 unità a Montecitorio e di circa 60 unità a Palazzo Madama).
E quelle sull’opposizione. Si prospetta un paradosso: le già difficili “larghe intese” all’interno della maggioranza adesso si trasferiranno, per legge del contrappasso, all’interno dell’opposizione, dove i gruppi di Sel e dei 5 Stelle si troveranno costretti a convivere e a dover ricercare, da scranni confinanti con il nuovo gruppo di Forza Italia, possibili punti di convergenza per giudicare e contrastare l’azione del governo.