Dunkirk
Tre soggettive per raccontare un incubo. Tre punti di vista – uno da terra, uno dal mare, uno dall’aria – per mettere in superba relazione cinema e storia. Tre angolazioni con durata diversa – una settimana, un giorno e un’ora – intrecciate tra loro per un film corale, duro, incalzante, importante. Diversi personaggi per una grande opera sull’evacuazione di Dunkerque: 27 maggio – 4 giugno 1940. Tre linee narrative per una stordente danza tra realismo (quasi documentario) e spettacolarità. Una pellicola (in formato 65mm) per tornare con una finzione catturante su quel mezzo miracolo che portò 300 mila soldati delle truppe alleate a uscire vivi dall’accerchiamento tedesco nella prima fase della Seconda guerra mondiale (100 mila militari tuttavia morirono). Christopher Nolan trascina lo spettatore nell’orrore, in una guerra più grande dei personaggi del suo film. Getta il pubblico in un martellamento che non lascia scampo, gli impone un viaggio doloroso che visivamente edemotivamente attanaglia come il cinema raramente riesce a fare. Il suo Dunkirk è da sala, da schermo gigantesco, con una fotografia gelida e cupa, con le claustrofobiche musiche di Hans Zimmer, con una regia visibilissima e impeccabile che alterna enormità e dettagli, che esplora spazi e individui cogliendo al massimo l’assurdo rapporto tra essere umano e guerra, ben al di là degli eroismi, delle vittorie e delle sconfitte.
Non parlano molto i personaggi di questo potente film, hanno invece un gran valore i suoni del contesto. Non parla nemmeno la grande figura senza nome composta dalla massa umana che lotta contro il tempo (tema fondamentale nel cinema di Nolan) per scampare alla morte. Fragile elemento della natura tra acqua e cielo, schiacciata su una striscia di sabbia sotto le bombe dei nazisti, impotente con le spalle verso il mare, essa si difende come può dalla catastrofe, col terrore e la forza che nasce dall’istinto di sopravvivenza.
Con sentimenti e comportamenti ambivalenti, umani in ogni caso.