Cresce la consapevolezza sulla crescita delle diseguaglianze e l’impoverimento progressivo di settori tradizionalmente appartenenti al ceto medio. Nel dibattito compare, a tratti, il riferimento al reddito di cittadinanza con accezioni molto diverse tra loro e pareri discordi sia sulla possibile applicazione di una tale misura che negli effetti reali di giustizia sociale. Riportiamo alcuni spunti utili di due noti economisti, Luigino Bruni e Vittorio Pelligra, per un dibattito molto più ampio affrontato, tra l’altro, nel Dossier di Città Nuova su Povertà e diseguaglianza per stimolare un approfondimento necessario ed esigente.
Luigino Bruni, economista. Professore ordinario Università Lumsa Roma
No. La dignità viene dal lavoro e bisogna colpire le rendite
Il reddito di cittadinanza non basta e può anche essere fuorviante: la Costituzione parla di lavoro per tutti, non di reddito per tutti. Se oggi dessimo solo reddito ai nostri disoccupati, metà finirebbe in gratta e vinci e slot.
La dignità minima, quando si è in età di lavoro, è il lavoro. Non credo che si esca dalla non-dignità con il solo denaro. Ne abbiamo troppi esempi. In un mondo cambiato occorre un grande piano per tornare a lavorare, soprattutto per i giovani ma non solo questi.
Quali sono le azioni concrete e ragionevoli da proporre per ribaltare le condizioni di progressiva deprivazione della classe media e la concentrazione della ricchezza in un numero sempre più ridotto ed esclusivo? Innanzitutto la tassazione: in Italia non si pagano solo troppe tasse (per chi le paga), ma il lavoro e l’impresa ne pagano troppe rispetto alle rendite. Dobbiamo agire sulle rendite, tutte, compresi i cosiddetti diritti acquisiti che sono spesso diritti alla rendita a vita.
Il Novecento ha fatto cose splendide, ma ha creato soprattutto nell’ultima parte un grande sistema iniquo di rendite nelle professioni, nelle alte cariche pubbliche, nei professori universitari. Occorre un nuovo patto sociale, e quindi una nuova stagione costituente. Il mondo è cambiato troppo e noi non lo capiamo. Quindi non agiamo bene.
Dall’intervista pubblicata su Cittanuova.it “Dalla trappola della povertà si esce con il lavoro“
Vittorio Pelligra, economista. Professore associato Università di Cagliari
Sì. Con l'Universal Basic Income si evita di intrappolare le persone in situazioni di isolamento, di dipendenza e povertà
Le caratteristiche qualificanti dello Universal Basic Income (UBI) sono tre: l’individualità, l’universalità e l’incondizionalità.
L’UBI è assegnato alla singola persona (cittadino adulto residente) senza riferimento alla situazione familiare o abitativa. Tale condizione si configura per superare i problemi connessi ai provvedimenti tradizionali, che possono essere definiti “anti-famiglia” o “anti-comunità”, in quanto tendono a penalizzare, attribuendo di meno a due persone che compongono una famiglia, rispetto alle stesse due persone che non componessero una famiglia. La famiglia è penalizzata.
Inoltre sempre meno spesso, vivere insieme equivale ad essere sposati. Quindi conoscere l’effettiva situazione famigliare/abitativa dei cittadini è sempre più complicato, intrusivo e spesso arbitrario.
L’UBI viene attribuito senza riferimento al reddito individuale: lo stesso livello per ricchi e per poveri. Nonostante questo possa sembrare paradossale, questo produce un vantaggio per i poveri più che per i ricchi. Il problema è legato a ciò che si chiama “trappola della povertà”.
Con le politiche di sussidio tradizionali, quando si è poveri, si riceve un beneficio per il semplice fatto di essere povero. Se si inizia a guadagnare, o un membro della stessa famiglia inizia a guadagnare, perché per esempio trova un lavoro, allora si perde il diritto a quello specifico beneficio; in altre parole si viene sanzionati attraverso l’eliminazione del beneficio di cui precedentemente si fruiva. Questa penalizzazione, disincentiva l’autonoma uscita dallo stato di povertà.
L’UBI sostituisce questa rete di sicurezza nella quale si cade quando si è poveri e dalla quale non si è spinti ad uscire, con un livello minimo di sicurezza sul quale stare in piedi da soli e che favorisce la ricerca autonoma di mezzi aggiuntivi per incrementare il proprio reddito, come un lavoro, ma un lavoro degno e giusto, non un lavoro obbligatorio e imposto. Questo va principalmente a vantaggio dei poveri non dei ricchi.
Ultima caratteristica : È incondizionale. Un primo aspetto. D’accordo con Simon Weil, ma anche Noam Chomsky, sono convinto che il lavoro sia un bisogno fondamentale dell’anima, ma ciò è vero, in particolare, quando parliamo di un lavoro creativo svincolato dall’effetto limitante, arbitrario e spesso coercitivo esercitato da una istituzione, per quanto democratica. Ne segue che ogni società decente debba tentare di massimizzare le opportunità di soddisfacimento di tale bisogno fondamentale della persona.
Un secondo aspetto. Ci sono situazioni nelle quali le persone si ammalano perché lavorano troppo e devono continuare a lavorare perché se riducessero il loro lavoro non sarebbero compensati; vedrebbero ridotto cioè il loro reddito in maniera netta, senza nessuna forma di compensazione pubblica.
Un terzo aspetto. L’obiettivo delle politiche pubbliche non dev’essere tanto quello di promuovere l’occupazione o l’occupabilità dei cittadini dal primo giorno in cui finiscono gli studi fino al giorno in cui andranno in pensione, ma piuttosto quello di favorire il loro sviluppo e la loro piena fioritura umana attraverso un processo di educazione che inizia nella culla e finisce ben oltre l’età della pensione. Le politiche pubbliche quindi andrebbero valutate maggiormente in termini del loro impatto sulla produzione di capitale umano che non in base al tasso di disoccupazione.
Riassumendo: si evita di intrappolare le persone in situazioni di isolamento, di dipendenza e povertà, non le si obbliga ad accettare (pena l’esclusione dal beneficio) o a permanere in qualunque lavoro (per quanto bassa la qualità e inadatto il lavoro per quella singola persona), ma anzi si incoraggia chi ha un lavoro ad alternare lavoro-formazione-famiglia, liberando in questo modo ore lavoro, rendendo più efficiente il mercato e facilitando l’uscita dalla condizione di disoccupazione.
(Estratto dalla relazione al forum di Città Nuova su Lotta alla povertà)