Due vescovi della Repubblica Popolare cinese al Sinodo
Nella lista resa nota nei giorni scorsi dei partecipanti al prossimo Sinodo dei vescovi sono apparsi i nomi di due vescovi cinesi: mons. Giuseppe Yang Yongqiang, 53 anni, da dieci vescovo di Zhoucun nella provincia dello Shandong, e mons. Antonio Yao Shun, 58 anni, vescovo di Jining nella regione autonoma della Mongolia Interna.
Questa novità ha spiegato mons. Luis Marín de San Martín, sottosegretario della Segreteria generale del Sinodo, è dovuta al fatto che «la Chiesa locale d’intesa con le autorità ha presentato due nomi e il Santo Padre li ha inseriti tra i membri di sua nomina». Si è dunque risolto il misterioso vuoto che tutti avevano notato nella prima comunicazione di partecipanti (inclusi quelli di nomina papale) che non contemplava alcun rappresentante dei cattolici cinesi della Repubblica Popolare.
Il fatto aveva spinto molti a commentare che era stato fatto un passo indietro rispetto all’assise sinodale precedente. Nel 2018, infatti, il Sinodo – si trattava dell’Assemblea che si occupò della Chiesa e dei giovani – aveva avuto la presenza di due vescovi provenienti dalla Cina. Erano il vescovo di Chengde (Hebei) mons. Giuseppe Guo Jincai e il vescovo di Yan’an (Shaanxi) mons. Giovanni Battista Yang Xiaoting.
Non va sottovalutato il fatto che allora non era stato ancora firmato l’accordo provvisorio fra Santa Sede e Repubblica Popolare Cinese relativo alla nomina dei vescovi nel Paese asiatico. Proprio quell’accordo che fa ancora molto discutere e che non tutti, sia in Vaticano che tra i cattolici cinesi, mostrano di apprezzare e valutare positivamente, rappresenta un certo spartiacque significativo anche per le recenti nomine sinodali.
Infatti, mons. Yao Shun è uno dei primi vescovi ordinati nel 2019, poco dopo l’entrata in vigore dell’accordo provvisorio, anche se il Vaticano aveva già approvato la sua nomina fin dal 2010. Inoltre, non deve sfuggire che la realtà cinese in senso lato – qualcuno la definisce “grande Cina” – sarà rappresentata anche da mons. Stephen Chow, gesuita vescovo di Hong Kong, che diventerà cardinale proprio alla vigilia dell’apertura del Sinodo e da mons. Norbert Pu, vescovo della diocesi taiwanese di Kiayi, designato dalla Conferenza dei vescovi della regione cinese, la Conferenza episcopale ufficialmente riconosciuta dal Vaticano, che attualmente comprende solo i presuli di Taiwan.
Questa lista finale di rappresentanti dell’area cinese appare, quindi, dare voce alle varie realtà della complessa geopolitica dell’area che non può non influenzare anche la Chiesa locale o, forse meglio riconoscere, le Chiese locali.
Le due nuove nomine mettono fine, almeno per ora, a speculazioni che si erano sollevate ancora una volta da più parti per sottolineare l’inadeguatezza e presunta arrendevolezza dell’accordo firmato dalla Santa Sede col governo di Pechino. In effetti, ci si muove su un terreno delicato e di grande sensibilità per accadimenti remoti e anche più recenti.
Il Segretario di Stato vaticano, cardinal Parolin, era intervenuto qualche mese fa per mettere fine a critiche che si erano sollevate da più parti per la decisione di papa Francesco di accettare il trasferimento del vescovo Shen Bin alla sede di Shanghai, il cuore del cattolicesimo cinese, decisa unilateralmente da Pechino, senza una previa consultazione della Santa Sede.
Parolin aveva parlato di una approvazione da parte del Vaticano “per il bene della diocesi”. Questo atto di comprensione ha, con tutta probabilità, portato Pechino a concedere il nulla osta alla partecipazione di due vescovi al Sinodo. Non è cosa da poco. Da una parte, dimostra quanto sia vera la necessità della grande pazienza, di cui papa Francesco ha parlato sul volo di ritorno da Ulan Bator a Roma, al termine della sua visita in Mongolia, attraversando, fra l’altro, lo spazio aereo cinese.
Lo scambio di messaggi con il governo cinese, in quell’occasione, è stato ancora una volta significativo. Dall’altro, come ricordato durante il briefing dal prefetto del dicastero per la comunicazione, Paolo Ruffini, la presenza di due vescovi cinesi all’Assemblea sinodale, rende visibile «l’importanza della Chiesa e del popolo cinese sottolineata con chiarezza da papa Francesco anche nel recente viaggio in Mongolia», quando, prendendo le mani del card. Tong e del neo-cardinale Chow, ha mandato un saluto accorato ai cattolici della Cina Popolare invitandoli a essere buoni cristiani e buoni cittadini cinesi.
Il rapporto Cina-Santa Sede, quindi, procede sebbene, secondo chi guarda con un occhio scettico, a corrente alternata e con una certa arrendevolezza da parte vaticana. Da varie parti, erano state avanzate riserve non solo sulle questioni a cui abbiamo accennato ma anche sul fatto che dalla pandemia in poi ai vescovi cinesi non era stato permesso di partecipare ad alcuna iniziativa delle Chiese dell’Asia, compresa la celebrazione del cinquantesimo anniversario della fondazione della Federazione delle Conferenze Episcopali Asiatiche, tenutasi a Bangkok, ad ottobre 2022.
Inoltre, proprio in occasione del viaggio di papa Francesco a Ulan Bator, allo stesso vescovo di Jining, che pure guida la Chiesa di un territorio di tradizione mongola e con legami storicamente importanti con Ulan Bator, non era stata concessa l’autorizzazione di recarsi in Mongolia. Proprio lo stesso vescovo potrà invede essere presente al Sinodo.
Questo spiega come ci troviamo a fare i conti con un tipo di rapporto che può essere capito solo andando al di là di quanto si vede. È spesso necessario leggere segni, silenzi, simbolismi che non rappresentano, almeno apparentemente, posizioni chiare, ma che mantengono la porta aperta a un processo che richiederà tempo per potersi evolvere nel migliore dei modi.
Non bisogna dimenticare che un certo rapporto diplomatico è già più che aperto, se si pensa alla recentissima visita del card. Zuppi a Pechino, nel quadro della paziente tessitura di rapporti che papa Francesco sta portando avanti per arrivare ad un cessate il fuoco e a una sospirata pace in Ucraina. Il fatto che Zuppi sia stato accolto nella capitale cinese significa che il governo di Xi Jinping ha apprezzato il riconoscimento da parte della Santa Sede del ruolo della Cina nel complesso panorama del conflitto.