Due “pionieri ad Ivrea

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Mentre con Italo salgo le scale di casa sua, è lui stesso ad aprire l’argomento: “Ecco, in questa palazzina è nato il primo gruppo del Movimento dei focolari di Ivrea”. Torinese di nascita, Italo Prosperi oggi ha 78 anni; gli acciacchi ci sono ma ben nascosti da un corpo eretto; la capigliatura è candida ma folta; lo sguardo sereno, da patriarca. “Dopo il nostro matrimonio, Giacomina ed io siamo venuti ad abitare qui nel ’53. Allora lavoravo alla Olivetti come tornitore specializzato” “. A Ivrea veniva ogni giorno a fare scuola un insegnante di origine siciliana, Angelino Rodante, della comunità torinese dei Focolari. Conosciuto dai Prosperi, fu da loro invitato a cena. Era il ’55. Quella sera, Angelino trovò con sorpresa un folto gruppo di persone – inquilini della palazzina e altri amici – radunate per l’occasione. Con lui vi era pure una persona da poco convertita al cattolicesimo: una di quelle storie che risucchiano l’attenzione. “Proprio in quel periodo – prosegue Italo – tra le famiglie del condominio i rapporti si erano piuttosto guastati: c’era chi voleva emergere, comandare gli altri. Anche tra me Giacomina non è che andasse bene” Io ero sempre fuori casa, preso dalle mie attività nell’Azione cattolica nel sindacato. Avevamo già tre dei nostri sette figli e lei doveva portarli avanti sempre da sola. Sentendo parlare di amore cristiano e vedendo cambiamenti che provocava nelle persone che lo mettevano in pratica, ci si aprirono gli occhi”. In seguito Angelino divenne di casa, dai Prosperi. “Si metteva addirittura ad aiutarci nelle faccende di casa col suo esempio ci faceva dono del tesoro che portava dentro di sé. Tra l’altro aveva una bella voce, intonava brani di montagna che incantavano noi e i nostri bambini. Quando lui se ne accorse ci disse: “Se venite in Mariapoli ne sentirete tanti”. “Cominciavamo a renderci conto che dietro ad Angelino esisteva una vera e propria comunità che guardava lontano, all’unità chiesta da Gesù al Padre. “Partimmo entusiasti e carichi di bagagli. A quei tempi bisognava portarsi tutto, persino le coperte. Io, Giacomina e mio cognato, più quattro bambini, stipati tutti dentro una Topolino a furgoncino. Avevamo messe le valigie nello spazio posteriore della vettura con sopra le coperte e su queste si distesero i bambini a dormire. Viaggiammo tutta la notte e solo dopo 15 ore arrivammo a destinazione: Fiera di Primiero, sulle Dolomiti. Angelino però, l’unica persona da noi conosciuta, non c’era: si era dovuto ricoverare in ospedale per un improvviso attacco di appendicite. “Presso l’albergo dove era la ricezione fummo accolti da Guido detto “Cengia”, che ci destinò a Tonadico. A farci strada, Oreste, ingegnere alla Breda di Milano, che girava in Lambretta. Ci sistemammo tutti e sette in una camera con un letto matrimoniale, una brandina e un cucinino” Eppure fu un’esperienza affascinante!”. Un ricordo indelebile di quella Mariapoli fu quando, per la prima volta, sentirono parlare di Gesù abbandonato. “Per me fu una luce abbagliante, un’intima conferma di ciò che andavo cercando. In quel mistero d’amore, intuivo esserci la soluzione di ogni problema. Sarei potuto partire da lì anche subito, perché ormai avevo trovato l’ideale della mia vita. “Dopo di allora, tra me e Giacomina, cambiarono molte cose. Una volta, nonostante mi considerassi un buon cristiano, e tale cercassi di apparire anche all’esterno, ero capace di tenerle il broncio per giorni. Ma ciò che importava – capivamo – era l’amore, la carità fra di noi, e che per questo ciascuno doveva rinunciare a qualche cosa. Così iniziai a rimanere di più in casa per far contenta mia moglie. Anche per lei esistevano i figli, la casa e basta. Ora invece aveva il coraggio anche lei di parlare in pubblico della nostra scoperta. Ci sentivamo legati profondamente, molto più di prima. Gli stessi figli crescevano in questo clima”. Appena desta dal riposino pomeridiano, sulla soglia del salotto appare Giacomina. Una figura minuta dai movimenti incerti, due occhietti vivacissimi di color smeraldo; non vedono più come una volta ma brillano di una luce interiore. Ne approfitto per chiederle come stavano le cose tra lei e Italo. “Quello che mi costava di più nel nostro rapporto era il fatto che lui era un tipo molto determinato, convinto delle sue idee. Questa tenacia l’ha mantenuta anche quando si è messo a frequentare il focolare. Con la differenza però che ora, quando tornava, era presentissimo, aiutava nelle faccende di casa, con i bambini” Questo suo atteggiamento pian piano mi conquistò all’ideale del movimento “. “Italo, so che c’è stato un aneddoto, in questa vostra storia, incompreso da molti””. “È vero! – conferma -. Stava maturando il tempo per Giacomina di diventare mamma per la quinta volta. Intanto mi era giunto un invito per un incontro a Roma. Ero tanto incerto sul da farsi. La levatrice era già in casa (a quei tempi non si andava in clinica) perché l’evento poteva esserci da un momento all’altro. Infatti non si fece attendere. Io mi mossi con decisione: il tempo di vedere la bambina appena nata e” via di corsa! Giacomina era ben d’accordo che partissi, ma una volta sul pullman non potei sottrarmi agli assalti del rimorso: “Come – mi dicevo -, parto lasciando mia moglie in queste condizioni?”” “Ero lì lì per scendere, quando dentro di me avvertii una certezza: “No, in questo momento devi seguire Dio e affidare a lui le cose che lasci”. Solo così riuscii a partire nella pace. Per me fu come un segno della chiamata di Dio; se fossi tornato indietro, magari non l’avrei percepita. Certo, per alcune persone della comunità di Ivrea questa partenza risultò assurda. Ma ai primi focolarini sposati era riservato il compito di aprire la strada a molte altre famiglie, anche se a quel tempo nessuno poteva immaginarlo”. “Come vedi oggi la vostra vita?”, chiedo ancora. “Prima che gli occhi di mia moglie si ammalassero, eravamo più attivi e più al servizio diretto del movimento. Ora quest’attività è molto ridotta, anche perché Giacomina non può restare da sola; ma qui ad Ivrea le nuove generazioni continuano a portare avanti quanto è stato seminato e cresciuto. Se è venuta a mancare un’attività apostolica che in fondo ci gratificava, ora questa gratificazione dobbiamo trovarla nella volontà di Dio del momento presente. Prima, io mettevo nelle cose che facevo tanto di me stesso, anche se non me ne accorgevo; in compenso si affina la carità. Se lui per noi vuole questo, siamo contenti di stare al suo gioco, è la cosa migliore. Nessuna nostalgia: non ci manca niente!”. Giacomina aggiunge qualcosa che lascia intuire la parte ascetica di un cammino spirituale nel quale si va a Dio attraverso il fratello: “Prima di questo nostro impedimento fisico si parlava, si dialogava tra noi, sì, ma ad onor del vero, non sempre ci si capiva. Magari si sentiva la necessità di ribattere, di stare a spiegare” Adesso invece lasciamo cadere qualunque cosa porti alla discussione e quindi alla divergenza: così l’armonia tra noi è pressoché stabile”. Italo e Giacomina, due che sanno sfruttare la condizione di precarietà fisica per continuare insieme un percorso iniziato già da molti anni ma graduale, nella continua ginnastica del “ricominciare”. Qui la vecchiaia non appare un naturale e irreversibile destino ma si rivela totale donazione di sé.

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