Due pellicole originali

Lady Macbeth di William Oldroyd è stato un successo di critica a Torino, San Sebastian e Zurigo. Cristi Puiu, 50 anni, è oggi forse il maggior regista rumeno.  In Sieranevada racconta infatti la Romania d’oggi.

Per quelli che si  lamentano dei film in uscita a giugno − solo commedie più o meno divertenti o blockbuster – ecco due registi  che hanno qualcosa da dire. E lo dicono in modo originale, affrontando il tema della sofferenza, del presente e del passato. Naturalmente, hanno alle spalle tanta storia del cinema, e talora si vede, ma ciò non diminuisce nè la passione né l’originalità e anche la profondità delle loro storie. Vicende di lotta,  dure e amare, dove la speranza è un lumicino fioco, specchio del nostro mondo attuale.

Lady Macbeth di William Oldroyd è stato un successo di critica a Torino, San Sebastian e Zurigo. Il regista inglese, 37 anni, è affascinato dal melodramma. Sceglie perciò la vicenda della celebre Lady − Lady Macbeth del Distretto di Minsk, scritta da Nikolaj Leskov nel 1865 e musicata da Sostakovic nel 1934 – , ma la trasporta nell’Inghilterra vittoriana, tra le brughiere agitate dal vento, accanto ad un oceano in tempesta e sotto un cielo perennemente cupo. Gelando lo spettatore fin da subito con un’aria glaciale di dialoghi – scarsi – e di sentimenti. La diciassettenne Katherine, costretta a sposare un uomo più grande che non la desidera, vive come una reclusa nella grande casa, oppressa da un suocero e da un marito dal cuore rigido.

lady

Bella, fascinosa negli abiti pittorici come in una tela di Degas, è assetata di libertà. Lo scontro con la chiusura dell’ambiente è inevitabile. Partito il marito e il suocero, la giovane si lascia trascinare in una passione sfrenata per lo stalliere Sebastian. Assapora la gioia di vivere, di correre tra i boschi e per la brughiera: si sente viva, indipendente, finalmente libera. Ma tutto ha un prezzo. La cosa viene risaputa dal suocero e dal marito. Scontri drammatici. La  ragazza non vuole rinunciare alla passione e alla libertà. Si insinua in lei il tarlo del male, che la spingerà con l’amante a compiere una serie di omicidi. La giovane dal volto puro si trasforma in una lady amorale, cupissima come la regina skespeariana con il debole marito. Teatrale, girato più in interni candidi e perfetti che in esterni ventosi, il noir si avvale di lunghi piani-sequenza in cui Katherine ci guarda e nel suo volto vediamo delinearsi  e spiegarsi  la trasformazione del suo animo. Memorabile la scena in cui lei siede dopo il delitto,  sul sofà, come in un ritratto ottocentesco e guarda lontano di fronte a noi: sola insieme al gatto, animale diabolico, che ci fissa anche lui con occhio maligno. Nel silenzio costante – non c’è musica – i personaggi agiscono come apparizioni, quasi fossimo in un film di spettri. Raffinata metafora del male e della solitudine, il film, diretto senza un battito di retorica ma con un’impressionante escalation sentimentale fatta di accenni  passi e occhiate, deve molto alla immedesimazione totale nel personaggio da parte dell’attrice Florence Pugh, fredda come una statua neoclassica e ardente come una femme fatale. A dire come il desiderio di indipendenza  possa portare a bruciare anche l’amore stesso. Di qui la stringente attualità del film.

sieranevada

Cristi Puiu, 50 anni, è oggi forse il maggior regista rumeno.  In Sieranevada racconta infatti la Romania d’oggi. Prende a pretesto la cerimonia del ricordo di un padre defunto e dell’attesa nella sua famiglia dell’arrivo del pope per la celebrazione,  per immergerci nel quadro polivalente di una piccola società – quella familiare −  per poi allargarlo alla grande società − la nazione – e di qui farne la metafora del nostro mondo. Un dramma teatrale, dove tutto si svolge all’interno della casa dove vive e governa la vedova, madre di Lary, il figlio medico, perno del racconto. Il caleidoscopio della vicenda riflette le situazioni personali più variegate: dalla zia nostalgica del comunismo, alla cognata di Lary che invece ne ricorda i soprusi, dal fratello impegnato in discussioni interminabili sull’attentato parigino a Charlie Hebdo, alla figlia ribelle che si porta in casa un’amica croata ubriaca e drogata, elemento destabilizzatore in una minisocietà di per sé già tesa. Si parla, si fuma, si beve nell’attesa del pope, dopo il quale si può pranzare. Intorno, fioriscono ricordi, rimorsi, rancori: la verità si fa strada lentamente. Intanto, il figlio più giovane deve vestire gli abiti larghissimi del nonno defunto, secondo la tradizione, la moglie di Lary freme perché deve andare a fare compere, Lary deve mediare tra le continue tensioni. Un mondo scombinato che trova un attimo di pausa all’arrivo del pope per la cerimonia, a cui pare creda solo la nonna. Nessuno sembra credere a nulla sul serio, si è come ciechi, la speranza è morta o troppo piccola per aprirsi un varco in questa fetta di umanità stordita, confusa, e senza pace, tra consumismo, nostalgia del comunismo o di Ceausescu, futuro incerto.

La bellezza del film sta nel fatto che questo affresco familiare – già noto al cinema − si fa corale, universale con una asciuttezza di mezzi e di interpretazione tali che le scene nascono, per così dire, l’una sull’altra o l’una dall’altra. Si incastrano formando una sinfonia umana dolorosa e smarrita che affascina per tre ore, senza che lo spettatore se ne accorga. L’immagine di un inverno livido accompagna come brevi squarci esterni la vita di una famiglia numerosa i cui membri si trovano, loro malgrado, a vivere in una dimensione di amara tragicommedia. È questa involontaria comicità che nasce sul dramma (il colloquio tra la zia comunista e la cognata in lacrime, il bambino che piange, il pranzo sempre posticipato e l’invocazione ricorrente di Lary «ho fame!») a dare una ulteriore linfa sotterranea al film e a condurre a qualche sporadico punto luminoso la disperazione che in verità permea il racconto.

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