Due naufraghi della vita nella zattera di Jon Fosse

Delude, nell’ambito del progetto “Trittico Jon Fosse” che il Teatro di Roma dedica allo scrittore norvegese, “Io sono il vento” messo in scena dal giovane regista Alessandro Greco
IO SONO IL VENTO

Il rumore dello sciabordio delle onde, ora forte ora calmo, accompagna l’apparizione di due uomini su una zattera. Sembrano la stessa persona per la somiglianza fisica e per gli stessi abiti che indossano. Oscillano ai bordi di quella chiatta in mare alla deriva. Uno dei due sembra intenzionato a scivolare in acqua. Vuole morire. L’altro lo ammonisce a non farlo. Chiede spiegazioni del perché di quel gesto estremo. Parlano, agiscono, restano in silenzio, guardano lontano, si scambiano i ruoli. Quel perimetro di legno circoscritto da specchi a terra che ne delimitano i confini, è, nelle intenzioni del giovane regista Alessandro Greco, uno spazio tutto mentale.

È l’area di un malessere dell’anima descritto in Io sono il vento”, da Jon Fosse. Una scrittura rarefatta e simbolica, questa del celebre scrittore norvegese (non, a mio giudizio, tra le migliori della sua ricca produzione) che vuole addentrarsi nel doloroso retaggio della condizione umana, in bilico tra vita e morte, tra incomunicabilità e condivisione. Dei due unopresumibilmente è morto suicida e il secondo cerca il motivo per cui l’altro abbia deciso, a un certo punto della vita, di mettere fine alla propria esistenza. In che modo quest’uomo ha iniziato a pensare al suicidio come l’unica soluzione possibile di una vita?

L’incomprensibilità di questo gesto non è solo legata alla fine di un’esistenza, non rimane un gesto fine a se stesso. I due sono, forse, un padre e un figlio alla stessa età, comparse di un incontro impossibile ma vagheggiato da tanto tempo; oppure due uomini su una scialuppa immaginaria impegnati a penetrare il senso della vita.

Fosse imbastisce un testo asciutto, minimale, evocativo, con i discorsi e le parole pronunciate dai due “naufraghi”, sempre spezzati, sospesi, rigettati altrove e ripresi. Un testo simile, dove i personaggi non hanno contorni definiti, dove i dialoghi sono balbettii e silenzi, dove la loro “storia” e l’ambientazione sconfinano nell’astrattezza e nella rarefazione del sogno, esige una solida presenza attoriale per dare spessore e verità, anche poetica, alle parole e ai silenzi, ai gesti astratti e al non detto. Perché il vero testo è da ascrivere nei corpi degli attori, nell’esperienza che si portano fisiognomicamente addosso, per come stanno vicini, per come si muovono.

Ai due, pur generosi, giovani interpreti, Giulio Maria Corso e Eugenio Papalia, manca la consapevolezza della loro consistenza sia fisica che mentale, quella per rendere la quale occorre saper costruire una forte tensione drammatica che deve catturare l’attenzione ed emozionare lo spettatore.

Al teatro India di Roma, fino all’1/3.

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