Due migranti in attesa
Come in mPalermu di Emma Dante, anche qui ci sono creature strambe – due emigranti – nel tentativo continuo di uscire da quello spazio claustrofobico: una casa, una gabbia, una sala d’attesa, lo stesso teatro, il proprio mondo interiore. I due personaggi della folgorante pièce 2 (due) di Luciano Colavero, sembrano attendere l’ordine di un’invisibile presenza esterna che dia loro il permesso di partire, consumando l’attesa come quelli beckettiani di Aspettando Godot. Ordine che non giungerà mai. E allora, in un poetico a tratti struggente ripetersi di azioni, i due, tra tic e manie, slanci e paure, scoprono una relazione di disarmante umanità che li rende creature fragili e tenere in una condizione esistenziale di emarginati. La drammaturgia di questa partitura gestuale ricca di dettagli, è densa di umori comici, di parole trattenute, di accenti dolorosi, dove la circolarità delle azioni sfuma in gesti quasi danzati, in cadute, salti, abbracci, mentre le parole di una canzone di Mina Parla, fa’ qualcosa; sto morendo…, sembra incitarli a muoversi, a riprendere il viaggio. Unico elemento scenico, un cumulo di valigie: da spostare, da prendere al volo, da glia e da quelle del mondo esterno. Lo fa accentuando l’ansia tutta contemporanea, della paura del diverso e della solitudine, del senso di inadeguatezza davanti alle aspettative degli altri. La sua è una fuga deliberata che lo condurrà alla regressione psichica e alla degradazione fisica, mentre i suoi famigliari, dall’iniziale sofferenza passeranno al fastidio e all’indifferenza, culminante nel gesto estremo della madre di ucciderlo. Liberati dall’incubo usciranno per strada spensierati, finalmente normali. Ma rimarrà il senso della mostruosità che alberga non fuori, ma dentro di noi. Ed è eccellente il protagonista Rube Ametilé nel disertare la specie umana pur rimanendo uomo, e facendo apparire tutto il suo malessere interiore.