Due guerre sante, una contro l’altra: e la pace?
Le due guerre sante sono il jihad proclamato da Hamas contro tutti gli ebrei e l’herem (sterminio) che gli ebrei haredi ultraortodossi e l’ultradestra israeliana hanno dichiarato a tutti i palestinesi. Colpevole di non aver compreso il rischio che si scatenasse il jihad e complice dell’herem sarebbe il premier Netanyahu. Questo sembrano indicare alcuni sondaggi riportati dal Financial Times: oggi solo il 7% della popolazione israeliana si fiderebbe di Netanyahu nella gestione del conflitto. Mentre un’ampia fiducia (74%) sarebbe accreditata a quei capi dell’esercito israeliano che il premier ha contrastato in passato e con i quali continua a scontrarsi. Pare che anche a livello politico il capo del governo non se la passi bene, se bisogna dar credito alle proiezioni che lo vedono crollato al 29% nelle preferenze degli israeliani come premier, contro il 48% accordato al suo oppositore Benny Gantz, militare di rango e leader dell’alleanza centrista Blu-bianco, che ha accettato di entrare nel governo di unità nazionale all’inizio delle guerra.
Le due guerre sante, l’una contro l’altra, non possono mirare ad altro che all’annientamento del nemico: a questo puntano tutte le guerre sante. Annientamento reciproco che non può dare spazio ad accordi, tregue o altri “tradimenti” di questo genere. In questa “logica” senza reali prospettive né speranza, alla strage preparata e attuata il 7 ottobre dagli islamisti di Hamas e dagli altri jihadisti (1.400 israeliani morti, quasi tutti civili) non può che contrapporsi l’irata vendetta patrocinata da ultraortodossi e ultradestra (finora 10 mila palestinesi uccisi, quasi tutti civili), che contano sull’effetto “rally round the flag” (radunarsi intorno alla bandiera), che si verifica in caso di forte pericolo, di tutta la popolazione israeliana, anche quella dissidente.
Quello che in occidente non si capisce o si conosce molto poco sono le narrazioni ideologiche e pseudo-religiose che i contendenti, entrambi fondamentalisti, accampano come giustificazione delle loro inaccettabili scelte di morte.
Per i jihadisti islamisti (e non islamici), il jihad è uno solo, quello che la tradizione islamica (e non islamista) chiama “piccolo jihad”: la guerra santa di cui estremizzano il significato, contro il nemico e l’infedele. Mentre ignorano o respingono di fatto il “grande jihad” della tradizione religiosa musulmana: lo sforzo morale per combattere il male dentro di noi.
Un esempio di lettura haredi ultraortodossa della Bibbia tratta dalle cronache dei nostri tempi è quella di alcune interpretazioni rabbiniche “autorevoli” che Mondoweiss (del 31 ottobre, un sito statunitense ebraico progressista) racconta così:
«È necessario chiarire che anche quando il nemico si nasconde dietro uno scudo umano, come nel caso delle informazioni sul quartier generale dei terroristi presso l’ospedale Shifa a Gaza – non esiste alcun divieto halachico [legge religiosa ebraica] o morale, né un divieto legale, per bombardare il nemico dopo sufficiente preavviso. E se con tale azione verrà versato sangue innocente, la colpa ricadrà esclusivamente sulle teste dei crudeli assassini [di Hamas] e dei loro sostenitori. Nella lista dei firmatari [di questo ed altri autorevoli responsi dello stesso tenore] figurano diversi rabbini illustri che in passato hanno sostenuto l’uccisione dei “bambini nemici”. I rabbini Yitzhak Shapira e Yosef Elitzur lo hanno scritto esplicitamente nel loro libro Torat Hamelech (King’s Torah) del 2009, sostenendo che tali bambini possono spesso ostacolare l’uccisione del nemico e che la loro uccisione è quindi consentita. Inoltre, hanno scritto che il loro omicidio è consentito con la giustificazione che questi bambini “cresceranno per farci del male”».
Così per evitare che qualche bambino palestinese cresca per fare il male ai santi rabbini e ai loro sostenitori le bombe israeliane su Gaza di bambini ne hanno ammazzati oltre 4 mila in un mese. Oltre a 6 mila civili adulti, tra i quali c’era anche qualche miliziano di Hamas, pare.
E non posso non accennare che la guerra santa trova numerosi sostenitori anche fra i 700 mila coloni ebrei presenti in 279 colonie illegali (ma favorite dal governo Netanyahu) nei Territori occupati della Cisgiordania, che poi sarebbe la terra dove vivono o cercano di vivere quasi 3 milioni di palestinesi.
Un episodio emblematico avvenuto due giorni prima del 7 ottobre, in occasione della festa ebraica di sukkot: dopo un saccheggio da parte di coloni ebrei (per vendetta contro un presunto attacco) in negozi palestinesi del villaggio di Huwara (dove era stato ucciso dai militari israeliani un 19enne arabo), Ben Gvir, capo del partito di ultradestra “Potere ebraico” alleato di Natanyahu, ha commentato su X: «Le nostre vite hanno la priorità sulla libertà di movimento e commercio dei palestinesi. Continueremo a dire tale verità e a lavorare attivamente per realizzarla».
La domanda che sorge è: si può sperare che la guerra santa dello stato ebraico o quella terrorista di Hamas (che si definisce altrettanto santa, anzi di più) producano una qualche pace duratura? Palestinesi e israeliani hanno bisogno di riconoscere e sviluppare un cambiamento per conquistare la pace.