Due film da non perdere
Amarcord, ovvero il ricordo del passato. Ma che dice molto sul presente, drammaticamente duro.
Branagh, a 61 anni, torna bambino nella sua Belfast dell’estate 1969 quando inizia la guerra tra protestanti e cattolici – vera guerra civile – che ha lasciato una eredità pesante sulla gente. Lui è Buddy, nove anni, innocente e gentile, gioioso e fantasioso, occhi limpidi, bravo a scuola, la prima cotta per una compagna, gli adorati nonni, il papà che lavora in Inghilterra, la mamma tenace e libera.
La guerra viene vista attraverso gli occhi spalancati, stupiti dell’innocenza che non capisce l’odio tra gente che prima si voleva bene, la distruzione, il dolore di dover lasciare la città, i nonni, gli amici. Il meraviglioso bianco-e-nero del film dice tutto questo senza retorica, con giusta sobrietà e con tocchi umoristici e scherzosi, che non guastano, come le scene con i nonni, gli stupendi attori Judi Dench e Ciaràn Hinds, tra piogge, cieli nuvolosi, strade dove si gioca, si vive e poi ci si uccide tra le minacce dei terroristi (Colin Morgan, l’ex Merlino della celebre saga Netflix).
C’è lo struggimento dell’infanzia perduta, dell’innocenza fuggita, e pure dell’ingenuità meravigliosa di un bambino di nove anni (dieci ne ha il protagonista, Jude Hill che si prende tutto lo schermo).
Branagh non celebra la guerra civile, ricorda e ci fa meditare sul nostro presente irrequieto, con malinconia sottesa: i bambini di sempre la guerra, qualsiasi guerra, non la capiscono.
È lo stupore dolente che aleggia nel film con la potente musica di Morrison, i primi piani, e la luce, il gioco parlante e musicale delle luci e del loro parlarsi e dire pensieri e parole. Questo è grande cinema. Ancora una volta.
Altri tempi, quelli della fine Anni Trenta in Italia, in una Ascoli bellissima. È Giuseppe Piccioni in uno dei suoi film più ispirati, unitari, profondi e lievi, L’Ombra del giorno.
Luciano (Riccardo Scamarcio) fascista passivo, zoppo per ferite di guerra, gestisce il ristorante sotto i portici della piazza centrale. Dalla finestra vede le ragazze fasciste volteggiare, i gerarchi come quello locale (Lino Musella, straordinario) entrare, discutere, glorificarsi. Lui è abulico, fa il suo mestiere. La vita passiva si rialza improvvisamente con l’arrivo di Anna, ragazza magra, nervosa, che porta vita nel locale e in Luciano: nasce l’amore, imprevisto. Ma siamo in tempi di leggi razziali ed Anna si svela come ebrea e costringe Luciano a nascondere il marito antifascista.
L’atmosfera nella piccola città cambia, i fascisti iniziano perquisizioni, interrogatori, arresti. Luciano è debole, smarrito, un suo cameriere lo vuol tradire. C’è violenza, dramma e l’annuncio dell’entrata in guerra da parte dell’Italia di Mussolini. Che farà la coppia, Luciano da che parte starà ora che è costretto a scegliere?
Piccioni racconta tutto questo con il suo stile umbratile, delicatissimo, in scene sobrie, misurate anche nella morte, con un pathos interiorizzato, emozioni fuggenti, sentimenti e la città bellissima. Poesia elegiaca di un periodo senza libertà, ricordata con sfumature commosse e autentiche, con una fotografia dolce e interpreti (Scamarcio, Porcaroli, Ceccarelli) giusti in un giallo politico che sa di attualità e fa molto pensare, quasi con l’aria di non volerlo fare. Vero cinema.