Due condizioni per un ritiro ordinato
Diciotto ore di combattimenti, nei quali hanno perso la vita 36 insorti, 8 militari e 3 civili: è questo il tragico bilancio degli attacchi coordinati lanciati dai talebani a Kabul e in altre tre province lo scorso 15 aprile. E se purtroppo le offensive primaverili non sono una novità, questa ha destato particolare preoccupazione. Come leggere, dunque, la situazione attuale del Paese? Lo chiediamo a Pasquale Ferrara, dell'Istituto universitario europeo di Firenze.
I talebani tornano all'attacco ogni primavera: siamo davanti al “business as usual” o questa volta c'è qualcosa di diverso, dopo gli ultimi episodi di abuso da parte dei soldati americani?
«In Afghanistan non c'è mai una situazione di “business as usual”. È vero che, essendo le condizioni invernali proibitive, si registra la tradizionale “offensiva di primavera”: il punto critico questa volta però non è tanto il comportamento dei soldati Usa, che i talebani hanno usato come giustificazione per l'attacco, quanto il fatto che si avvicina la data del ritiro del contingente internazionale. La reazione è stata vigorosa, ma esistono ancora delle vulnerabilità in quanto al controllo del territorio da parte della polizia e dell'esercito afghano».
È quindi possibile che il ritiro, previsto per il 2014, venga posticipato?
«Non credo si possa pensare di rimanere in Afghanistan a data da destinarsi. Perché il ritiro avvenga in modo ordinato, però, bisogna che vengano soddisfatte due condizioni: lasciare una democrazia “sostenibile” e consolidata, che impedisca la frammentazione del territorio in potentati regionali, e uno Stato in grado di reggersi da solo dal punto di vista economico quando finirà il sostegno internazionale. La sconfitta dei talebani si gioca su questi due punti, più che sul fronte militare».
Molti tuttavia leggono questo attacco come un segnale che, una volta partito il contingente internazionale, tutto tornerà come prima: in questi dodici anni non è dunque cambiato nulla?
«Non credo ci sia la possibilità di un ritorno al governo centrale dei talebani, etichetta peraltro abbastanza generica: continueranno a esistere però alcune sacche e potentati regionali. Per questo è cruciale l'opera di State building, di costruzione dello Stato».
Fino a che punto ha senso quest'opera in un Paese abitato da popolazioni diverse, che non parlano nemmeno la stessa lingua?
«La storia non può essere riscritta: se in passato c'è stata la creazione di quest'entità statale, è da lì che bisogna partire per fare in modo che funzioni. Altrimenti bisognerebbe rimettere in discussione l'intero processo di decolonizzazione: basti pensare all'Africa, dove le frontiere sono un fatto puramente politico. Uno Stato multietnico non è una novità né un problema, lo è il fatto che le diverse popolazioni si combattano: del resto l'Afghanistan, storicamente un punto di passaggio tra l'Oriente, l'Europa e il subcontinente indiano, è sempre stato un nodo critico. Per trasformare questa criticità in un punto di forza, bisogna lavorare ad una cultura realmente democratica: e quella, a differenza delle elezioni, non si può importare».