Due carriere in famiglia?
Se lui lavora troppo, lei viene penalizzata. Simboliche due proposte di legge sul congedo di paternità.
Francesca, una carriera avviata nel mondo della finanza e un marito ingegnere ad alti livelli. Lui viaggia in continuazione, in Italia e all’estero, non ha orari, deve essere sempre reperibile e pure le vacanze sono un terno al lotto. Anche lei è molto stimata e si è fatta strada in un ambiente terribilmente competitivo. Ma i figli sono adolescenti e la vita della grande città con i parenti lontani e le relazioni ritagliate nel tempo libero, evidentemente molto risicato, impongono una scelta: o uno dei due genitori lavora di meno, oppure i figli si devono arrangiare, a rischio e pericolo di tutti. Ed ecco che Francesca chiede il part time.
Elena, invece, ha già il part time e con tre figli piccoli non può pensare di rientrare a tempo pieno. Ma l’azienda ha bisogno di una persona presente 8 ore al giorno. Il risultato è presto detto: Elena sta cercando una nuova occupazione perché il marito è impegnatissimo in un’altra azienda.
Storie di oggi che confermano quanto sostiene un’indagine svolta su più di 25 mila lavoratori pubblicata sull’American sociological review: se lui lavora più di 50 ore a settimana, quasi certamente lei dovrà rinunciare alla carriera. Tante le possibili spiegazioni e molteplici le cause, da quelle più di tipo “culturale” alla difficoltà di conciliare lavoro e famiglia e, non ultima, quella di armonizzare la carriera propria e quella del marito, come abbiamo visto. Che fare per evitare casi del genere? Ripensare le regole, suggerisce l’indagine stessa, a partire da quelle interne agli ambienti di lavoro che potrebbero, ad esempio, tenere conto delle esigenze delle famiglie con entrambi i coniugi lavoratori, per scelta, ma sempre più per necessità.
Che siano un segnale, seppur timido e simbolico, le due proposte di legge, una di destra e una di sinistra, in esame alla Camera che prevedono l’obbligatorietà per il papà di rimanere a casa quattro giorni a stipendio pieno alla nascita di un figlio? «Il vero obiettivo – spiega Barbara Saltamartini autrice della proposta del Pdl – è passare dalle pari opportunità alle pari responsabilità e quindi pensare non alla tutela delle donne, ma ad un sistema che consenta alla famiglia di organizzarsi».
La sua collega del Pd, Alessia Mosca, riferendosi all’esempio del Portogallo, che da quando ha introdotto il congedo obbligatorio per i papà nel 2002 ha visto passare le richieste dal 2 per cento (quando era facoltativo) al 22 per cento, commenta: «Questo vuol dire che l’obbligo di restare a casa può insegnare che prendersi cura dei bambini è bello. Può rompere un tabù, avviare una rivoluzione».
Come sempre non si può generalizzare. Giovanni, ad esempio, alla nascita della terza figlia, a poca distanza di tempo dalle altre, ha fatto di tutto per aiutare Rita a gestire la famiglia cresciuta, almeno agli inizi. Ferie, permessi, recuperi, tutto quello che era possibile e consentito, mentre Daniele ha rinunciato ad un avanzamento di carriera in un’emittente importante per stare accanto alla moglie alle prese con un tumore.
Ma il divario rimane e in tal senso il confronto con l’Europa dovrebbe stimolarci. In Finlandia, ad esempio, la presidente, da dieci anni, è donna come ben 11 ministri su 20 e il primo ministro da poco in carica. Qui non si parla di quote rosa, il ministro per le Pari opportunità è uomo e non si celebra la festa delle donne, perché non si vede cosa ci sia da festeggiare.
Un quadretto inedito e un popolo da noi geograficamente e culturalmente distante, seppur "europeo", che vanta una lunga tradizione al femminile e una presenza in Parlamento mai al di sotto del 38 per cento. Quasi il doppio della nostra percentuale che in questa legislatura è comunque migliorata del 5 per cento raggiungendo il 20,2 per cento con 191 donne su 945 eletti nelle due Camere.
La cosa non cambia se dalla politica passiamo al mondo del lavoro e dell’economia. La Norvegia, con una quota del 35 per cento, è il Paese con il maggior numero di donne presenti nei consigli d’amministrazione. Secondo una statistica della commissione dell’Unione europea sulla presenza femminile ai massimi livelli direttivi nelle imprese quotate in borsa, accanto alla Norvegia troviamo la Svezia e, appunto, la Finlandia. Nei Paesi economicamente più forti, come Gran Bretagna, Germania e Francia, il tasso di presenza femminile è rispettivamente del 12, 11 e 9 per cento, mentre la media europea è del 10 per cento. Nel nostro Paese solo il 6,9 per cento di posti di comando è occupato dalle donne con punte del 15 per cento nel settore tessile e del 4 per cento in quello del bancario.
Insomma, abbiamo ampi margini di miglioramento.
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