Duccio forse più di Giotto

Se qualcuno volesse cominciare a conoscere Duccio di Buoninsegna da Siena, potrebbe sostare dapprima a Firenze, agli Uffizi. Gli si affacciano davanti tre grandi tavole di identico soggetto – una Madonna in trono col bambino e gli angeli – rispettivamente di Cimabue Duccio e Giotto. Maestri che fra il 1285 e il 1320 – in un’età di trapasso storico e culturale di enorme portata – usciti tutti dal cantiere francescano di Assisi, hanno dato voce con stili e poetiche diverse ad una stagione artistica straordinaria. Dal confronto fra i tre, l’arte di Duccio – priva del dramma di Cimabue e del realismo di Giotto – emerge come un punto di raccordo armonioso fra tradizione bizantina, suggestioni del gotico transalpino e nostalgia della classicità. Un’arte che, per capacità di astrazione poetica, distacco emotivo, nuovo senso spaziale, comunica una superiorità, ma non lontana: fondata sulla variazione della luce, è un’arte insieme individuale e corale. Con uno spirito che, secoli dopo, si può ritrovare nella musica di Bach; o, per restare al Trecento, nel Paradiso dantesco. Siena ha un’aria particolare. Né fiorentina o toscana, né romana o veneziana, è qualcosa che, pur racchiuso nella linea di cristallo del suo temperamento – e della sua arte – sovente ne “sfora”, facendosi scoprire capace di tenerezza pudica, di affetto dolce: di aristocrazia dello spirito. Maestri noti e ignoti esprimono questa temperie lungo il Duecento, ma è Duccio che raccoglie questi elementi, li fa poesia, con naturalezza: più dei successivi Simone Martini o dei Lorenzetti. Ecco la grande, giovanile, Madonna Rucellai del 1285. Somiglia al contemporaneo soggetto di Cimabue nell’impostazione e nella tipologia; ma se ne distacca subito, perché la delicatezza e la trasparenza del colore, il “sottovoce” trepidante fra madre e figlio, parlano senese; mentre la linea del manto della Vergine vibra di una sottigliezza più gotica che bizantina. Mutamenti che a prima vista non si notano, perché Duccio, signorilmente, parla per accenni, lasciando dire tutto alla luce: la “sua” luce, che è diffusa, e calda. Ma questa luminosità, per quanto di eredità bizantina, contiene una tensione verticale e nello stesso tempo uno sprigionamento dal suo stesso interno – un concentrato di natura, diremmo, “mistica” – che viene da lontano, da Oltralpe: rimanda alle cattedrali gotiche di Francia, Chartres ad esempio, le cui vetrate chiarissime sono inni celesti. Duccio – difficile dire esattamente per quali vie – conosce queste atmosfere, le ha fatte sue. Il grande “occhio” che ancora filtra la luce nell’abside del duomo senese, di cui Duccio fornisce i cartoni sul 1287, con le scene mariane fra santi ed evangelisti, è così una autentica “visione” mistica. Nella primavera del colore, trapassato dal sole che intenerisce gli azzurri-viola, i gialli, i verdi, l’ispirazione lirica del pittore vola musicale e gioiosa: una gioia ter- sa, senza squilibri, non rovinata da alcuna sopraffazione emotiva. In quegli anni Duccio sta infatti esplorando la gamma del sentimento. Sono piccole tavole devozionali, madonne col bambino, ora a Siena a Berna a Perugia, che – sulla scia di quelle giovanili a Crevole e a Buonconvento – siano su fondo dorato o sopra tappezzerie raffinate, sempre propongono uno studio attento sulla dinamica degli affetti: in una intimità mai troppo esibita, ma vera, fatta di gesti minimi. Talora è un semplice tocco della mano sul manto, a proteggere i piccoli francescani. Però è tale da caricare la scena di poesia. E di fede. Questa dimensione, innegabile in Duccio, prende significati civili, concreti, nel capolavoro assoluto dell’artista – un vertice di tutta la storia dell’arte – che è la Maestà del duomo senese. Un tempo sull’altare sotto l'”occhio” della vetrata, doveva apparire quello che in effetti voleva rappresentare: il paradiso già qui in terra, grazie a Maria “porta coeli”. Portata in processione dai cittadini dalla bottega del pittore alla cattedrale il 9 giugno 1311, la Maestà ancora oggi trasmette una immagine consolante di bellezza, un qualcosa che è pace e gioia finissime. Maria, celebrata dai senesi come loro Avvocata, siede al centro di una “teoria” celeste. Da lei si irradia una dolcezza che a lei ritorna dai gruppi attraverso le infinite variazioni della luce sui toni raffinati del colore, sulle espressioni assorte dei volti, di una purezza nostalgicamente “classica”. Il canto di Duccio si fa, come notava Cesare Brandi, “polifonico”. A molte voci è infatti il registro poetico della grande opera, dipinta su entrambi i lati. Se la Maestà appare in tutta la sua gloria nella facciata anteriore, il tergo offre le scene della Passione: così che il singolo fedele, e l’intera comunità, contemplino il proprio itinerario personale e collettivo attraverso il percorso dal dolore alla luce. Brilla perciò nelle storie della Passione una vena poetica diversificata, in cui, senza perdere mai il senso della misura e l’ottica unificante della fede, Duccio (e la bottega, fra cui Martini e Lorenzetti) reinterpreta temi e stili notissimi con uno spirito nuovo. Non è solo l’uso espressivo del colore, i cui toni si richiamano – blu e rossi – in ogni singolo episodio; nemmeno la varietà sentimentale, con accenni da misurata “sacra rappresentazione” . Duccio, come ha la “sua” luce, ha il “suo spazio”: non ampio e solido, come quello giottesco, ma più leggero, più astratto. Uno spazio in cui vuoti e pieni (Deposizione, Marie al sepolcro, Annunciazione) son visti da una prospettiva non razionale, ma aerea, simbolica diremmo: ed il vuoto non è assenza di figure, ma pausa musicale nella struttura polifonica della storia. È insomma un atteggiamento interiore ed una soluzione artistica che ricorda da vicino le Passioni bachiane, o, se si vuole – anche se con stile e poetica differenti – secoli dopo, il Greco di Toledo. Duccio, unendo simbolismo bizantino e spiritualismo gotico, crea in definitiva un linguaggio diverso, “corale”. Di quanto ne fosse egli stesso cosciente, lo attesta la dedica sua e della comunità senese sul piedistallo del trono della Vergine: “Madre santa di Dio, sii causa di pace per Siena. Sii vita per Duccio perché così (bella, ndr) egli ti ha dipinta”. Dove, al posto dell’insistito individualismo fiorentino – si pensi al contemporaneo Giotto degli Scrovegni padovani – si ha l’armoniosa fusione fra autocoscienza cittadina e partecipazione personale. Di fronte alla Maestà che si squaderna come una visione, vien da pensare che il Dante del canto alla Vergine abbia preso ispirazione da qui, più che da altri, tanto simile è l’atmosfera che vi si respira. Duccio, che morrà nel 1319 sui sessant’anni, comporrà ancora dolci madonne su tavola o affreschi civili come la Consegna del castello di Giuncarico nel Palazzo Pubblico. Per noi, la sorpresa, avendo iniziato a frequentarlo, è che la sua arte non ci appare sorpassata o minore, ma quanto mai vitale ed “umana”: nell’astrazione degli ori e nella trasparenza dei suoi volti, aleggia uno sguardo benevolo sul destino dell’uomo. Non sarà Duccio un autore tutto da scoprire, per il Terzo millennio? UNA RASSEGNA, UN’EPOCA Un centinaio fra arredi, sculture, dipinti, oreficerie, miniature, vetrate nei locali di Santa Maria della Scala e del Museo dell’Opera del Duomo. Fra le opere restaurate, spiccano il colossale rosone duccesco del duomo, le 12 tavolette di coronamento, predella e tergo della Maestà e la Madonna del 1319 di Segna di Bonaventura. La mostra, in otto sezioni, parte da autori precedenti e coevi di Duccio, prosegue con riferimenti a Cimabue e Giotto, propone 15 lavori ducceschi, dedica tre sezioni ai seguaci del Maestro, prosegue con il capitolo Martini e Lorenzetti, studia orafi e scultori senesi cittadini e del territorio. Oltre alle visite guidate, è possibile ammirare il ciclo di affreschi da poco scoperti nella cripta del duomo. Duccio. Alle origini della pittura senese. Dal 4/10 all’11/1 (catalogo Silvana) e-mail: info@duccio.siena.it 0577-296539.

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