E-ducare. L’albero e il suo sogno

Educare, grande sfida del presente che coinvolge diverse agenzie formative. Un progetto di integrazione e riscatto.

Il termine educare, come sappiamo, deriva dal latino e racchiude in sé necessità, metodo, finalità di un impegnativo processo che dura tutta la vita. ‘E-ducere’, ‘tirare fuori’ le innumerevoli potenzialità di cui ognuno è portatore, per favorirne crescita e responsabilità e arrivare ad una completa socializzazione. Sfida emersa impellente nell’ultimo decennio, si pone da tempo come vera emergenza riconosciuta a tutti i livelli e richiede coscienza delle criticità e dei cambiamenti, esige preparazione e competenza, stimola la capacità di mettersi in gioco e di reinventarsi.

La teoria in materia, a documentare rigorosamente tutto ciò, propone analisi e strategie qualificate. La prassi accanto a molti ragazzi mi ha dato modo di sperimentare che è quanto mai necessario anche un ingrediente base che non pecca di ingenuità anche se suona antico e scontato. È uno strumento che tutti possiamo prendere in mano, professionisti e non. Si esita un po’ a nominarlo allo stato puro, temendo appunto di essere considerati sempliciotti e antiquati. In realtà tale componente del fatto educativo si nasconde già fra le pieghe di tutti i trattati pedagogici e scientifici, ma vi è declinato con termini rinnovati. Si parla di empatia, capacità di ascolto, relazione, prossimità. Cioè Amore, con la A maiuscola.

L’impegno ad amare gli ‘educandi’, potenziando in primis la loro capacità di amare, puntando alla reciprocità dell’Amore, è stato il punto di partenza dell’Albero e il suo sogno.

Siamo nel doposcuola di un quartiere segnato da disagi sociali rilevanti, nella prima periferia di una città che lasciamo anonima. L’industrializzazione e l’iniziale migrazione interna, seguita da quella del sud America prima e poi del nord Africa, ne hanno fatto un territorio multietnico e frammentato. Le famiglie ‘straniere’, accanto ai grandi problemi economici che le accomunano a molte famiglie italiane, si scontrano ancora con la fatica dell’integrazione e con il rischio di vivere ‘vite parallele’ nel proprio cerchio di origine.

Proprio lì i salesiani offrono, come servizio dell’oratorio, un doposcuola per i ragazzini non italiani che frequentano le scuole medie del rione. Come si può immaginare uno degli scogli più ardui è quello della lingua italiana.

L’idea di dedicare un po’ di tempo a scalare questa montagna piace. Nella noia di mesi di compiti fatti on line, una idea: “Proviamo a lavorare sulla fantasia. Io dico una frase e a turno voi aggiungete un pezzo, spontaneamente, vediamo cosa viene fuori. “C’era una volta un vecchio albero stanco che viveva in una foresta….”.

In dieci minuti nasce un breve testo, quanto è possibile mettere insieme con le poche parole di ciascuno. E una sfida: scommettiamo che trasformiamo questa pagina in un libro?

Dopo l’incredulità arrivano serietà e impegno inattesi. Frase per frase, ragionando, immaginando, cercando i sinonimi delle parole, fantasticando su profumi, rumori, colori, facendo qualche ricerca su internet, ma soprattutto imparando con fatica ad ascoltarsi e a valorizzare il contributo di ognuno nasce una favola. Potrebbe sembrare una accozzaglia di idee, ma è proprio questo il valore aggiunto: c’è spazio per ogni desiderio e ogni suggerimento e le pagine contengono ogni contributo, proprio tutti, anche la parolina del ragazzino più timido e silenzioso. Si decidono insieme i minimi dettagli, si scelgono i disegni, i colori, i ringraziamenti.

Lavoro impegnativo di quasi un anno ed esce il libro, edito da Effatà: 13 autori di 10 Paesi diversi. L’amore ha tirato fuori il meglio di ognuno e il risultato più bello del percorso non è il libro è che, come recita l’introduzione, abbiamo imparato a conoscerci, a lavorare insieme, siamo diventati gruppo, complici, più amici e il messaggio è passato ad altri. Dicono infatti i protagonisti: Questa favola vuole insegnarci che dobbiamo essere contenti di quello che abbiamo, di come siamo, ma non smettere mai di sognare”.

Abbiamo fatto la storia in un modo divertente, ma la cosa bella – spiega Chiara – è che dicevamo le cose a caso. Ci siamo divertiti. È stata una esperienza bellissima”. AggiungeRebecca: “Questa storia mi ha fatto capire che non dobbiamo desiderare di essere come gli altri, ma accettarci come siamo fatti”. Afferma Antonio L’importanza non è quanto ci metti ma è riuscire a concludere. E noi ce l’abbiamo fatta e da questa esperienza ho capito quanto è bello fare le cose insieme”.

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