Dragon Blade

Un gruppo di soldati romani marcia sulla Via della Seta, duemila anni fa. Congiure, duelli all'ultimo sangue, muscoli ed effetti speciali nel film di Daniel Lee. Nelle sale, da rivedere, La grande bellezza di Sorrentino in versione estesa, con un magnifico Tony Servillo
Dragon Blade di Daniel Lee

Cinema e politica

 

Pare molto innocuo, Dragon Blade, blockbuster cino-americano che racconta l’impresa di duemila anni fa con un gruppo di soldati romani in marcia sulla Via della Seta. Il leale generale Lucio (John Cusack) sta proteggendo il piccolo Publio, figlio del console Crasso, dal fratello cattivissimo Tiberio (Adrien Brody) e si incontra con Huo Aan (Jackie Chan), comandante  pacifico che protegge la Via della seta e che gi dà rifugio. Ma il cattivo avanza e lo scontro è inevitabile. Diretto con assoluta padronanza di mezzi tecnici da Daniel Lee e recitato da attori credibili – forse un po’ meno Adrien Brody nei panni romani –, il filmone, quasi tutto al maschile, lancia un messaggio di comprensione e di scambio reciproco tra i romani-ingegneri-eroici guerrieri (cioè gli Usa che qui se ne sentono eredi) e i cinesi accoglienti e costruttori di pace, esperti di arti marziali e di agopuntura, già nel 50 avanti Cristo. Chi vuol capire, capirà. Naturalmente, siamo nel rinato genere peplum con tanto di muscoli, congiure, duelli all’ultimo sangue bene in vista – effetti speciali e scenografici accattivanti – e il senso dell’avventura che non manca mai in questo genere di film che un tempo – ma oggi non si usa più dire – chiamavano "polpettoni" ed ora vengono nobilitati dall’accordo tra Hollywood e l’universo cinese per pubblicizzare l’amicizia (?) tra i due imperi.

 

A proposito de La grande bellezza

 

Rivedere in versione estesa– quasi tre ore – il film di Sorrentino e non stancarsi vuol già dire qualcosa, nonostante la sala veda molti vuoti, comprensibili data la stagione. E si deve ammettere che il film è più bello che nella versione normale, quella che tutti abbiamo visto. La storia di Gambardella, giornalista che ha volutamente perso la vocazione al romanzo per immergersi nella mondanità, lascia ancora melanconici, come se il regista vedesse sfiorire un’epoca di vita e di cinema ormai irraggiungibile davanti alla trivialità, all’ipocrisia e alla mancanza di senso del presente. «Io non cerco un altrove», recita un magnifico Tony Servillo, contrapponendosi alla piccola suora, alias Madre Teresa di Calcutta, che si aggrappa ferocemente ai gradini della Scala Santa in Roma per l’ultima offerta di sé al suo Dio.

 

Vedendo il film, a parte  gli omaggi alla Dolce vita felliniana, il ricordo del Trimalcione del Satyricon, sempre di Fellini, viene in evidenza. Certo, Gambardella è un fine viveur, non un ignorante gradasso come l’arricchito romano, eppure li unisce il medesimo disincanto e in fondo il disprezzo per il mondo inutile che li circonda. I personaggi de La grande bellezza sono di fatto persone “inutili”, a sé e agli altri: il loro cinismo o narcisismo li rende immagini di una società  spiritualmente, più che vuota, sfinita.

 

Di qui il pessimismo velato che attraversa le scene in cui Gambardella si immerge nella mondanità, ma anche il desiderio di verità – come nei dialoghi con la direttrice nana o l’ingenua disincantata Sabrina Ferilli –  che pur lo perseguita e l’infinita nostalgia per la bellezza del primo amore, della prima natura, in fondo dell’innocenza.

 

Innocente sembra solo Roma vista di notte o all’alba, non una Roma da cartolina – come piace  agli americani –, ma una città  sempre magica e inafferrabile che si erge contro la grande bruttezza umana ancora  immacolata nei giardini, nelle piazze, nei palazzi della vecchia nobiltà scacciata, nei musei dove un timido, misterioso Giorgio Pasotti fa da Virgilio a Dante-Gambardella che ricerca sé stesso. La versione estesa dà modo di scoprire meglio tutto ciò ed altro, a differenza di quella più breve, certo meglio gradita agli Usa, perché priva dei lunghi soliloqui o dialoghi o silenzi che invece sanno di tante parole non dette e di tanti pensieri nascosti. Con tocchi di poesia e attimi commoventi che il riservato Sorrentino lascia appena filtrare dal suo intimo, nascondendolo nella spettacolarità barocca di un film ambizioso, eppure autorivelativo di riflessioni e di dolori ben celati sotto la veste di una magnificenza fotografica e scenografica eccellente. Per aprire un timidissimo varco a una piccola speranza, qui e non in un “altrove”. Da rivedere, per chi vuole.

 

I fondi di magazzino

 

Tipici del gran caldo escono a decine ogni settimana. Stavolta ci sono: Cattivi vicini 2 per teen-ager (inconsistente ma furbetto sui matrimoni gay), My Bakery in Brooklyn (una coppia di sorelle in pasticceria, ed è detto tutto), Tokyo Love Hotel di Hiroki Ryuichi (quartieri a luci rosse di Tokyo, nessun rimorso…), la commediola frizzante Il piano di Maggie con Ethan Hawke e Julianne Moore (anche i grandi scendono a patti con l’estate).

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