Draghi, la Libia e i migranti
Draghi in Libia. Nel suo viaggio lampo a Tripoli del 6 aprile, il presidente del consiglio italiano ha rilasciato una breve ma significativa dichiarazione dove, tra l’altro, ha detto testualmente: «Esprimiamo soddisfazione per quello che la Libia fa per i salvataggi. Nello stesso tempo aiutiamo e assistiamo la Libia. Il problema non è solo geopolitico, è anche umanitario. Da questo punto di vista l’Italia è forse l’unico Paese che continua a tenere attivi i corridoi umanitari. Il problema delle immigrazioni per la Libia non nasce solo sulle coste libiche ma si sviluppa anche sui confini meridionali. L’UE è stata investita del compito di aiutare il governo libico anche in quella sede».
Purtroppo quei “salvataggi” in mare, come denunciato anche su cittanuova.it, non sono tali ma veri e propri respingimenti che si concretizzano nella cattura di migranti che cercano di attraversare il Mediterraneo per sfuggire alle condizioni disumane dei campi di detenzione. Veri e propri lager descritti da coraggiosi giornalisti come, ad esempio, l’inviato del quotidiano Avvenire Nello Scavo. Come hanno commentato i gesuiti del Centro Astalli, «dei centri di detenzione in Libia i rifugiati ci parlano ogni giorno da molti anni. Se noi avessimo dato voce ai rifugiati oggi i nostri rapporti con la Libia sarebbero molto diversi».
Le reazioni molto dure al discorso di Draghi da parte di alcuni parlamentari, appartenenti all’attuale maggioranza governativa, non pare che avranno ripercussioni sulla stabilità dello stesso. Mentre, dall’opposizione, il partito di Fratelli d’Italia, con Giorgia Meloni, saluta il ritorno agli obiettivi strategici del governo di centro destra del 2011: «Riaprire il dossier dell’approvvigionamento energetico ripartendo dalla storica presenza dell’ENI; collaborare con il nuovo governo di unità nazionale per fermare il traffico di esseri umani e l’immigrazione illegale di massa e contrastare il dilagare in Nord Africa del terrorismo islamista».
Ritorno al 2008
In effetti sembra confermarsi, anche nei dettagli, l’impostazione dell’accordo di collaborazione concluso nel 2008 tra Berlusconi e Gheddafi, ma poi arenatosi con il conflitto del 2011 che ha visto l’Italia allineata controvoglia sulle posizioni di Francia e Stati Uniti. Come ha confermato, in una recente intervista a Limes, l’ammiraglio Giuseppe De Giorgi, allora capo di Stato maggiore della Marina militare, «l’Italia è stata messa davanti al fatto compiuto, con i cacciabombardieri in fase di decollo dalle loro basi. Fu il presidente Napolitano a premere sul presidente del Consiglio Berlusconi affinché partecipassimo anche noi»
Dopo 10 anni da quella guerra, che quasi tutti oggi vedono come un grave errore ma che all’epoca ebbe pochi oppositori in Italia, ci troviamo come dice l’ex ministro agli interni Marco Minniti intervistato da La Stampa, con «l’Oriente scivolato verso il Mediterraneo centrale con la presenza di Turchia e Russia in Libia». In un Paese, cioè, diviso finora a metà tra la parte controllata dalle truppe del generale Haftar (con il sostegno di Putin, Emirati Arabi Uniti ed Egitto) e quella dal governo di Tripoli ufficialmente riconosciuto dall’Onu, con il sostegno militare di Turchia e Qatar.
È in tale scenario che l’Italia sta cogliendo l’occasione per riprendere il suo storico ruolo in quell’area geografica grazie alla nascita di un esecutivo libico, unitario e legittimo, insediatosi ufficialmente solo lo scorso 15 marzo.
Una novità inattesa e frutto, come ha detto l’ambasciatore Pasquale Ferrara in un incontro web promosso dallo Iai (Istituto affari internazionali), dell’azione diplomatica di Stephanie Turco Williams, l’inviata speciale di fatto del Segretario Generale delle Nazioni Unite in Libia, che ha promosso a Ginevra un “forum del dialogo libico” in grado di mettere assieme non solo i rappresentati dei due parlamenti ( di Tripoli e Tobruk) ma anche «i rappresentanti della società civile, donne e giovani, che erano fuori da quel confronto politico così aspro degli ultimi anni». Si deve a tale processo negoziale, intrapreso dopo i tentativi falliti di imporre una supremazia bellica tra le due parti, l’accordo per un governo di unità nazionale che ha il compito principale di arrivare alle elezioni politiche del 24 dicembre 2021 che condurranno, si spera, ad avere un parlamento unitario.
Il nuovo primo ministro, Abdul Hamid Mohammed Dbeibeh, che ha mantenuto ad interim la Difesa, è un ricco imprenditore che alcuni osservatori paragonano, per certi versi, all’italiano Berlusconi, anch’egli imprenditore di successo e presidente del consiglio che il 30 agosto 2008 firmò con Gheddafi un “trattato di amicizia, partenariato e cooperazione” da lui sintetizzato con la formula “più petrolio e meno migranti”.
Nell’accordo era prevista la fornitura da parte della Selex, società di Finmeccanica (ora Leonardo), di un sistema efficace di monitoraggio, tramite droni e satelliti, della frontiera meridionale del Paese, cioè nel deserto del Sahara affrontato dalle carovane dei migranti da intercettare prima del loro arrivo sulle coste del Mediterraneo. Contratto che rientra, oltre al dossier Eni, nel quadro dei rapporti da rinsaldare con la Libia come la costruzione della cosiddetta “Autostrada della pace”( 2 mila chilometri tra la Tripolitania e la Cirenaica) e la riapertura dell’aeroporto di Tripoli.
Quale presenza per l’Italia?
Si tratta di capire se questa nuova presenza dell’Italia in Libia permetterà di esercitare anche una persuasione nel campo del rispetto dei diritti umani. È quello che sperano quei commentatori che si affidano all’accenno di Draghi sui migranti: «Il problema non è solo geopolitico, è anche umanitario».
L’ esecutivo Dbeibeh ha bisogno di tempo per consolidarsi e procedere in un cammino di riconciliazione che incontrerà diversi ostacoli. Prima di tutto il mantenimento del “cessate il fuoco” che potrebbe chiedere l’intervento diretto di Irini, la missione militare Ue, con un ruolo importante dell’Italia, che ha il compito di far rispettare il divieto Onu di traffico d’armi da e per la Libia. D’altra parte esistono, da tempo, pressioni evidenti per una nostra presenza sul terreno libico. In un editoriale del 28 febbraio 2021 su Repubblica, il direttore Maurizio Molinari ha rimproverato al governo Conte di non aver prestato, nell’autunno 2019, aiuto militare al governo di Tripoli, guidato da Fayez al Sarraj, che, assediato dalle truppe di Haftar, si è poi rivolto alla Turchia. Già la ministra della Difesa, Roberta Pinotti, disse, nel 2016, ma poi subito smentita, che l’Italia era pronta a guidare in Libia una coalizione di Paesi dell’area, europei e dell’Africa del Nord.
Quello che c’è di certo è che già esiste ed è operativo un “Accordo di cooperazione tecnico-militare” tra il governo di Tripoli e l’Italia siglato il 4 dicembre 2020 dal ministro della Difesa Lorenzo Guerini che si estende al «campo della lotta alla migrazione illegale, oltre alla sicurezza delle frontiere terrestri e marittime». Così come esiste un rapporto di collaborazione dell’Italia con le forze armate del Qatar, alleato della Turchia, Paese cardine della NATO, come documenta il direttore di Analisi Difesa Giandrea Gaiani che informa sul fatto che «l’Italia schiera anche nel porto di Abu Sitta (Tripoli) la componente della Marina Militare italiana (Nave Pantelleria e una settantina di militari) che supporta e coordina le attività della Guardia costiera di Tripoli contro l’immigrazione illegale».
Sono le conseguenze dirette del vigente Memorandum di intesa tra Italia e Libia siglato nel 2017 da Paolo Gentiloni, allora presidente del consiglio italiano, e Fayez Mustapa Serraj, capo dell’allora governo libico di riconciliazione nazionale. Accordo che ha comportato anche la cessione di mezzi di pattugliamento alla guardia costiera libica che sta, infatti, operando nell’intercettare e riportare in Libia i migranti che cercano di arrivare sulle nostro coste. Ben 1.663 persone nella settimana dal 28 marzo al 3 aprile 2021 secondo fonti Onu (Organizzazione internazionale per le migrazioni, IOM).
Draghi ha, perciò, descritto una situazione che tutti conoscono. Così come si conosce l’oggetto della visita, avvenuta in contemporanea, di Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, e della presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, in Turchia e cioè il mantenimento dell’accordo economico della Ue con Erdogan per impedire a 4 milioni di profughi, per lo più siriani, di arrivare in Europa. Una partita così importante da tollerare, come ha confermato Michel, anche un evitabile sgarbo protocollare (la mancanza di una sedia per la von der Leyen). Draghi si è lasciato andare, in questo caso, ad un commento duro verso Erdogan.
Quanto alla Libia è difficile far finta di nulla dopo che, troppe volte e da più fonti, è stata denunciato il trattamento disumano e le orribili violenze subite da uomini, donne e bambini persone detenute nei campi lager. Siamo davanti ad un fatto che interpella la nostra coscienza, a prescindere dagli schieramenti politici. Politicamente si tratta di capire se l’Italia avrà l’autorevolezza per pretendere il rispetto dei diritti umani fondamentali e decidere di non collaborare con pratiche violente e degradanti per uomini, donne e bambini.
La linea adottata dal governo Draghi apparirà più chiaramente la prossima settimana con la visita in Libia della ministro degli Interni Luciana Lamorgese.