Dove va il Kosovo?
Madrid 11/3 e Londra 7/7 ci hanno portato ad incontrare l’Islam di casa nostra, e ad interrogarci sulla sua presenza minoritaria, ma talvolta assai inquietante. Ma c’è un fazzoletto di terra, in Europa, dove l’Islam è invece maggioranza: l’Albania, metà Bosnia e il Kosovo. Una zona turbolenta. Dopo la Bosnia, Sarajevo e Srebrenica (vedi il numero scorso di Città nuova), ecco il Kosovo. Vi arrivo, partendo da Skopije, viaggiando fianco di Azir, un amico musulmano di etnia albanese, insegnante, residente nella capitale macedone. L’Islam kosovaro – mi spiega – aveva un nemico esterno, i serbi, e lo ha combattuto, dapprima perdendo, poi vincendo la guerra per l’intervento occidentale. Tuttavia il problema era soprattutto interetnico. Per vincere, gli albanesi si sono troppo arabizzati, prendendo dell’Islam solo alcuni aspetti esteriori, mentre nell’intimo sono sempre più distanti dalla sua natura misericordiosa, e questo spiega le posizioni fondamentaliste che non sono di natura religiosa, ma politica. La frontiera si annuncia con un improvviso aumento dei mezzi delle istituzioni internazionali, pubbliche (Kfor, Un, Ue…) e private (Care, World learning, Caritas…). Gli elicotteri volteggiano testardamente sulle nostre teste. Il posto di confine, gestito dall’Onu, appare protetto da un imponente apparato militare. Appena oltre, il cadavere di un mostro industriale, un sito metallurgico, è in stato di avanzata decomposizione. A mio avviso le prospettive per il Kosovo – riprende Azir – sono di tre tipi: in primo luogo l’Occidente porterà le sue fabbriche, ma anche inquinamento, mafia e droga; secondo:gli emigrati aumenteranno e il Kosovo rimarrà fuori dall’Unione europea perché non avrà uno sviluppo economico sufficiente. Terzo: saremo soppiantati dai paesi confinanti con l’Asia, strategicamente più importanti dei nostri staterelli balcanici, senza petrolio e grandi risorse. La strada verso Pristina, discretamente asfaltata e trafficata, è in fase di ristrutturazione ad opera dell’Ue. Sul Nerodimka stanno costruendo un viadotto, nell’avvallamento in cui si svolse una cruenta battaglia tra turchi e albanesi: la leggenda narra di un fiume rosso di sangue fino a Skopije.Le truppe straniere non se ne andranno prima di dieci anni – aggiunge Azir -, e l’indipendenza sarà raggiunta solo nel momento in cui i serbi torneranno, e gli albanesi dimostreranno di saper coabitare con gente di etnia e religione diversa dalla loro. Mi par di sognare. È un immenso cantiere quello che attraversiamo: ogni metro di terreno che fiancheggia la strada nazionale pare conteso da imprenditori d’ogni tipo, e le architetture paiono strambe che più strambe non si può. Manca cultura – conclude Azir -, questo è il vero problema degli albanesi. E mancano iniziative imprenditoriali. Lo denuncia l’assenza di capannoni industriali, fattorie, laboratori . La realtà è dura: le rimesse degli immigrati finiscono nel mattone, e non nella produzione. Pristina moderna e senz’anima Negli ultimi trenta chilometri prima del capoluogo kosovaro non si vede una sola pietra non dico antica, ma nemmeno vecchia. Lo sviluppo diPristina è recente. E i monasteri serbi, quelli non ancora distrutti dalla furia iconoclasta di tanti albanesi, sono nascosti nei boschi… Ecco Caglavica, paese in maggioranza serba. Qui la chiesa ortodossa c’è, e i volti dicono che si tratta proprio di serbi. La città s’annuncia con una selva di antenne paraboliche: sembra che un gigante abbia sgretolato sulla città del polistirolo espanso, e che le singole palline si siano aggrappate ai balconi delle case. Uno spettacolo post-moderno, non più accompagnato dalle donne velate, che si fanno rare. Ecco viale Bill Clinton, che qui è un eroe che campeggia in enormi murales. Ecco la silhouette di una immensa chiesa ortodossa, la cattedrale mai terminata. Poi l’università, quella più fotografata nel corso degli avvenimenti del 1999. Tutto, o quasi, è stato restaurato nel recinto dell’ateneo, per dare un aspetto di rinascita alla città. E qui mi accorgo che Pristina è abitata da una popolazione giovanissima e in prevalenza femminile. La popolazione che segue alle guerre. Il tassista si dice amico di Richard Hollbrook. È musulmano ma con amici cattolici e ortodossi: Noi dobbiamo imparare di nuovo a vivere insieme – mi dice – perché non abbiamo alternative. Altrimenti ricominciamo ad ammazzarci, fino alla scomparsa dei kosovari. Mi indica un monumento a tre ali: nel 1961 voleva rappresentare la comune patria delle etnie serba, albanese e turca. Il tassista commenta ancora: Perché noi kosovari dobbiamo sempre farci del male?. Poi la visita alla chiesa ortodossa di San Giuseppe, distrutta negli ultimi sommovimenti popolari del marzo 2004, nel corso dei quali alcune decine di chiese vennero saccheggiate o bruciate in Kosovo. Furia etnica impazzita, odio dirompente, stupidità imperante… Tutto può essere detto, la legge del taglione funziona ancora, purtroppo. Commenta Azir con la sua calma saggezza: Finché non impareremo, noi albanesi, che non siamo soli al mondo non potremo mai essere accettati dalla comunità internazionale. Grande Albania? Prima bisogna essere piccoli cittadini, onesti e laboriosi. Una mano pietosa ha posto su quel che resta dell’altare un drappo rosso che accoglie un pane a forma di croce. È un simbolo eucaristico e sacrificale, due diversi aspetti della presenza serba in Kosovo che talvolta hanno fatto cortocircuito. Scendo i gradini di una piccola cripta. Escrementi. La profanazione chiama altra profanazione; il fuoco accende altre pire: in Kosovo siamo lontani dalla soluzione della violenza. Solo un sacrificio vero – rinunciare al monopolio della propria religione, accettare la diversità – potrà riportare la gente alla ragione. Semplicemente alla ragione, anni luce prima della fede. OCCHIO PER OCCHIO La distruzione dei luoghi sacri musulmani e cristiani è l’espressione forse più evidente della tensione che ancora si respira in Kosovo. Due pubblicazioni ufficiali, di una impressionante somiglianza, testimoniano le distruzioni di chiese (soprattutto nel marzo 2004) e moschee (negli anni precedenti la guerra del 1999). Ma la religione c’entra poco con tali distruzioni – mi spiega un pope serbo ortodosso che vuole tuttavia rimanere anonimo, per paura di rappresaglie -, è solo una questione politica ed etnica. Noi religiosi, da una parte e dall’altra, musulmani e cristiani, dobbiamo spegnere l’incendio delle coscienze, e lavorare per una nuova coabitazione. Ma dobbiamo anche avere il coraggio di guardare in faccia la verità degli atti incresciosi che abbiamo commesso.