Dove sono finiti gli inca?

Zona da eccessi turistici, la Valle Sacra e il Machu Picchu svelano una straordinaria civiltà, ancora largamente sconosciuta.
Gente

Cuzco, doppia sorpresa. Da una parte è una meraviglia da gustare soprattutto nelle prime ore del mattino, quando la gente è poca e l’aria fresca, quando gli spazzini sono all’opera, le donne quechua imbandiscono le loro bancarelle e i poliziotti cercano di svegliarsi con una tazza dietro l’altra di tè di coca. Dall’altra Cuzco è un’incredibile macchina turistica, che innervosisce chi ha l’abitudine di viaggiare senza tour operator.

 

La città riporta al tempo dei conquistador spagnoli del XV e XVI secolo. Ma non solo, la città va più indietro nel tempo di quanto si possa pensare, perché sia la geometria urbana e soprattutto le fondamenta degli edifici del centro della città conservano le irriducibili tracce della perizia ingegneristica inca: le pietre, anche le più maestose, si incastrano le une nelle altre perfettamente, tanto che non passa né un refolo di vento, né una lama di luce, né una goccia di liquido attraverso. Una conta addirittura dodici angoli.

Cuzco vive della convivialità delle sue piazze, prima fra tutte quella Plaza de armas, spazio sacrificale e cerimoniale, chiamato dagli inca Huacayapata, piazza dei guerrieri. Nella festa del Sole, Inti Raymi, qui venivano portate le mummie sacre. Gli spagnoli qui decapitarono Tupac Amaru II, capo della rivolta inca del 1781. Qui comincia la Valle sacra.

 

Chinchero

 

Chinchero è sulla strada da Cuzco verso la Valle sacra. I mercanti di oggetti d’artigianato non hanno ancora aperto i negozi. Fa fresco, l’aria è cristallina, le poche nuvole che stagnavano si sono levate. La cittadina, che conta 11 mila abitanti e secondo una leggenda locale sarebbe stata la culla dell’arcobaleno, è situata a 3772 metri d’altezza, sull’altopiano di Anta. Qui il decimo re inca, Tupac Yupanqui, nel XVI secolo costruì il suo palazzo, che mantenne per un breve tempo la sua indipendenza, visto che alla fine dello stesso secolo cadde in mano spagnola. Che, come prima cosa, volle costruire una chiesa cattolica al posto del palazzo. Gli spazi sono quelli giusti, gli orizzonti che si aprono sui terrazzamenti sono incantevoli, con le cime andine innevate sullo sfondo, la chiesa non stona troppo.

 

Salinas de Maras

 

L’abitato di Maras, tutto adobe (mattoni di paglia e fango seccati) e calli perpendicolari, è fatto di polvere: l’abitato sembra sfaldarsi sotto l’azione del tempo, degli agenti atmosferici e dell’incuria. Paesaggi stupefacenti – campi dorati, agavi lungo la via, qualche austero eucalipto che si espone ai venti, la possente corona bianca delle vette andine –, ci inoltriamo in una gola, per scendere alle saline di Maras. Non c’è anima viva. Ecco una distesa di bacini rettangolari di 5-10 metri di diametro, sorretti artificialmente come le tradizionali terrazze inca, ma coi muri di sostegno ricoperti di sale scintillante al sole dei tremila e passa metri. Nessun bacino ha lo stesso colore di quelli attigui, perché ciascuno viene riempito in momenti diversi. Un uomo vestito di rosso controlla che ogni canalina che distribuisce l’acqua calda della fonte sia perfettamente libera, che le saline non abbiano cedimenti nei bordi, che i muri di sostegno siano in perfetto stato. Qui la lotta contro la natura è quasi impari, perché la stagione delle piogge tende a sconvolgere tutta la perizia e la laboriosità degli operai, una cinquantina, che nella stagione buona producono settanta chili di nitrato di sodio al giorno.

 

Maray

 

Maray è decisamente originale. Sembra fosse un luogo incaico a metà strada tra il tempio alle divinità della natura e un sito di ricerca agricola: se a prima vista può apparire un complesso di anfiteatri di modello greco o romano, nelle sue terrazze sono state trovate sementi di 250 diverse specie vegetali. Oggi rimangono quattro muyus, anfiteatri perfettamente circolari. Il quarto, il più recente, è anche il più grande e complesso, contando una dozzina di anelli, 45 metri di profondità e la prosecuzione in una seconda serie di gradini a comporre un’ellisse. Tra il cerchio superiore e quello inferiore si creano temperature che differiscono di dieci gradi centigradi. Scendo. Bisogna mantenersi in equilibrio sui “gradini volanti”, pensando solo al cammino, e a null’altro, perché c’è già tutto: l’armonia universale, la Pacha Mama, come dicono gli aymara. Da queste parti si vive bene, si vive in armonia con il creato e con i fratelli. Non è poco.

 

Ollantaytambo

 

Ecco la Valle Sacra inca. Sul fondo scorre il fiume sacro, il río Urubamba, in uno spazio di un chilometro di larghezza, con pareti che s’innalzano per duemila metri, verso i giganti andini del Pitusiray e La Verónica. Furono gli ayamarca ad abitare il sito prima degli inca. Furono sconfitti da Pachacútec verso la metà del XV secolo, dopo un’acerrima resistenza capitanata da eroi quali Paucar Ancho e Tokori Tupa. Lo sfruttamento del sito iniziò subito dopo, con opere grandiose, quali il raddrizzamento del río Urubamba per tre chilometri, la costruzione di un efficientissimo sistema di irrigazione e di enormi granai. Gli spagnoli tentarono di occupare Ollantaytambo già con Francisco Pizarro, ma il leader inca Manco Inca resistette. L’abitato attuale è rimasto simile a quello del XV secolo, o forse ancora prima.

 

Due bimbette con in testa un vaso di petunie fucsia, vogliono farsi fotografare per strapparmi una moneta. Cedo, e nei loro occhi leggo la gioia di avermi fatto fesso e l’orgoglio di un popolo indomito, che gli spagnoli credevano di avere sottomesso. L’ascesa alla fortezza è lenta, deve esserlo. Le scale sono una specialità degli inca. Si sale accompagnati da lunghe e larghe terrazze che erano coltivate, fino a un gradino più alto degli altri, su cui era sistemato il tempio. Le enormi pietre erano state trasportate dalla montagna di fronte, in cui ancora si riconosce la cava d’estrazione, a costo di una quantità impressionante di vite umane. Altri tempi, il valore dell’esistenza non era quello attuale. E mi trovo a rifiutare di “giudicare” la civiltà inca. Serve rispetto, attenzione e approfondimento per giudicare.

 

Machu Picchu

 

Alla meta ultima del viaggio, vi si arriva solo in treno. Il Vistadome della Perurail ha finestre ampie e aperture anche sul tetto, di modo che la visione dell’ambiente circostante è di quelle che non possono lasciare indenni. Si avanza a 40 all’ora, nella valle che si restringe fino a diventare un sottile spazio tra declivi che s’innalzano per più di mille metri. La vegetazione, da rada e secca, s’ispessisce e rinverdisce più si scende – si passa da 2800 a 2000 metri –, al punto che sembra di essere in un ambiente subtropicale. Una natura che ha salvato Machu Picchu dalla distruzione. Per arrivare ad Aguas Calientes, squallida cittadina per turisti. Solo l’indomani si sale al mitico Machu Picchu.

 

Che trovo popolato da una incredibile folla. 2500 persone al giorno, numero chiuso. Ma basta cercar di scattare foto senza turisti nel mirino, oppure scendere una delle tante scale che escono dai normali percorsi, ed ecco che Machu Picchu ridiventa (anche) mio. Certamente la posizione geografica per il luogo conta molto, incassato com’è tra cime ripidissime ricoperte di vegetazione, eppure isolata e svettante, come un uccello che si riposa prima di spiccare il volo. È il simbolo della cultura inca che non ha piegato il collo dinanzi ai colonizzatori (ma di chi e di che?).

 

La riscoperta del luogo è stata un’epopea. Fu Hiram Bingham, archeologo dell’università di Yale, a “riscoprire” il sito nel 1911, cento anni fa: una città inca sfuggita a 400 anni di saccheggio coloniale, rimasta intatta, se si escludono le parti in legno e fibre vegetali. Il mistero nei fatti permane: perché Machu Picchu è stata costruita nel XVI secolo dall’inca Pachacútec, se non contava su miniere, non aveva spazi per agricoltura estensiva, non era in posizione strategica, non aveva fini militari specifici? Le più recenti scoperte, comunque, sembrano avvalorare l’ipotesi di una cittadella con una particolare vocazione naturalistica e spirituale.

 

Così il mistero domina Machu Picchu, anche perché i costruttori di questa città hanno voluto rispettare il mistero della natura – del cosmo –, accompagnando le sue forme e le sue conformazioni, mettendosi all’ascolto delle stelle, cercando di intuire i suggerimenti dell’Alto e delle alture. Per cui ogni abitazione, tempio, camminamento o piazza è un tassello del mosaico cosmogonico inca, è una parola iscritta nella storia, uno squarcio di bellezza e di rispetto per la vita. Certo, mi si dirà, e come la mettiamo con i sacrifici animali e soprattutto umani che venivano praticati? È un problema; ma una lettura umanista e cristiana della storia, rispettosa e non invadente, potrebbe arrivare a comprendere e mettere in prospettiva le filosofie di vita più originali. Anche qui al Machu Picchu.

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