Dove sarà mai l’ombelico del mondo?

Che noi italiani non brilliamo per le ampie vedute, è forse vero. Siamo un po’ provinciali, deliziosamente provinciali, come mi diceva il prof. Amitai Etzioni, grande politologo di Washington. Se va bene. E crediamo, ovviamente, con tutte le opere d’arte che abbiamo, con spiagge monti colline dall’inimitabile fascino, di essere l’ombelico del mondo. Come lo credono d’altronde francesi e inglesi, memori dei fasti coloniali. Lo credono pure gli statunitensi, sono i gendarmi del mondo, o piuttosto credono di esserlo. Ne sono convinti i cinesi, dall’alto del loro primato demografico e dei loro picchi di sviluppo. Poche settimane fa ero in Finlandia, un Paese geograficamente ai margini dell’Europa, ma che ha raggiunto vette tecnologiche ed economiche fino a ieri impensate: anche lì, stessa storia. Insomma, il mondo pare avere tanti ombelichi. Un fattore che scombina queste convinzioni provinciali è certamente uno dei fenomeni sociali e geopolitici più vasti e drammatici mai conosciuti dall’umanità: le migrazioni di massa, non più di origini locali e occasionali, ma ormai generalizzate. Secondo i più recenti dati forniti dalle Nazioni Unite, nel 2005 sarebbero 245 milioni i cittadini di diverse nazioni che hanno deciso di cambiare Paese, cercando fortuna altrove, anche dall’altra parte del pianeta. Sempre queste statistiche – che hanno ampi margini di errore, ovviamente – ci spiegano che il 35 per cento di questi emigrati non ha documenti in regola. In Italia gli immigrati sarebbero, secondo l’Istat, circa 3 milioni, di cui il 24 per cento irregolari. E l’inquietudine cresce, perché l’emigrato è diverso per pelle, cultura e religione, e porta con sé insicurezza. Ogni Paese doverosamente cerca perciò di regolare il fenomeno. Ma lo fa dando nuovo impulso ai propri modelli tradizionali, quelli fatti in casa: la Francia, ad esempio, all’intégration, di cui l’ungherese Sarkozy e l’italiana Bruni, sua consorte, sono l’esempio più evidente; la Gran Bretagna crea invece nuovi Londonistan; gli Usa, da parte loro, perseguono il ben noto melting pot, il gran mescolamento delle etnie. Tutti e tre questi modelli – e pure gli altri che non ho nominato – sono però in crisi, crisi grave, per motivi apparentemente diversi, ma in realtà per la stessa ragione: quando gli immigrati superano le percentuali sopportabili dal sistema, tali modelli non riescono più a regolare la società. Ed ecco le proteste delle banlieue francesi, il terrorismo nato nei ghetti inglesi, i muri eretti in Usa per fermare i latinos. Ognuno ritiene, cioè, di poter regolare il fenomeno a modo suo, come si lavano i panni sporchi in casa propria. Il caso dell’Europa è sotto gli occhi di tutti, e non permette certo di inorgoglirci. Anche perché ci fa perdere il lume della ragione, non facendoci ricordare, ad esempio, che i nostri Paesi sono ormai vasi comunicanti, grazie a Schengen, all’euro, ai voli low cost, ad Erasmus. E così ogni Paese cade, come sostiene il sociologo De Rita, nella trappola delle identità: più mi isolerei dagli altri, dai diversi, più preserverei la mia identità. Il recente fallimento del vertice Fao (vedi alle pp. 14-19) non fa che confermare la questione: più i problemi sono di dimensioni epocali, più la concertazione sarebbe necessaria. Invece si fa il contrario: ci si divide ancora di più. E anche quando la buona coscienza mondiale si mette in moto, come nel caso della Birmania (vedi alle pp. 20-21), i risultati concreti sono miseri. E non basta più la buona volontà di Chiese e Ong a togliere le castagne dal fuoco. Facile profezia: l’enormità dei problemi – petrolio, inquinamento, fame e migrazione – costringerà prima o poi i responsabili delle nazioni a mettersi assieme e a trovare soluzioni globali, universali. Soluzioni epocali, perché quando mai il mondo si è unito per risolvere i propri problemi? Non possiamo più rimanere a guardarci l’ombelico, ognuno il suo. In un mondo sempre più interconnesso e interdipendente, ma in cui paradossalmente non riusciamo più a parlarci tra vicini, anche le politiche dovrebbero essere interconnesse e interdipendenti. O piuttosto inter-indipendenti, dicendo con questa espressione che si deve anche preservare la propria identità. Si dice, a questo proposito, che la fraternità – di cui noi tanto spesso parliamo su queste colonne – non basti: ma come mai, tra le altre categorie politiche, solo la fraternità è abitualmente accompagnata dall’aggettivo universale? Una ragione ci sarà pure, e i governanti dovrebbero tenerne conto.

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