Dov’è la donna?
Riflessioni su femminilità e mondo del lavoro
«Pensa a quell’inestimabile dono che è la donna nell’umanità; alle donne così come sono nella loro femminilità, nella loro specifica originalità, nella loro amabilità e bontà connaturali, nella loro innata capacità di essere fonte di gioia e di pace per quanti le circondano, nella loro grazia, sì da essere definite autorevolmente: forse il capolavoro della creazione. Perché le donne lo sappiamo non sono quelle che appaiono in certi programmi televisivi e su molti rotocalchi. Quelle sono una minoranza tale nella realtà da scomparire di fronte ai milioni e miliardi ormai di donne, spose, madri, vergini, vedove che, il più delle volte sconosciute e nel silenzio, lievitano la nostra società». (da Il genio femminile, Chiara Lubich alla Giornata della Pace, 1.1.1995, Trento – in Chiara Lubich, Dottrina spirituale, ed. Mondatori, p. 239).
Confronto queste parole con l’immagine della “donna di successo” che la società ci propina: vallette, ballerine di dubbio talento, belloccie senza molta intelligenza o all’opposto donne molto intelligenti, energiche, responsabili di alto livello che per arrivare dove sono hanno assunto caratteristiche maschili. Pare che per avere successo nel nostro mondo maschilista siano solo queste le alternative: indossare i panni della donna stupida che cerca solo di piacere agli uomini o annullare la propria femminilità e mostrare di possedere “attributi maschili”. E la donna, la vera donna cui fa riferimento Chiara Lubich, dov’è?
I pregiudizi di cui l’immagine femminile è fatta oggetto (magari sotto la veste formale della parità e delle quote rosa) ormai sono talmente radicati nel nostro modo di pensare da non essere facilmente smascherabili neanche da noi stesse donne. Quando ci si scaglia contro uno stereotipo femminile di solito è quello della “bella e stupida” ad essere attaccato, ma non ci rendiamo conto che la manager in tailleur, che non mostra empatia per nessuno e rinuncia a figli, famiglia e relazioni per far carriera è ugualmente lontana dall’essenza più vera della donna, prodotto anch’essa di una società maschilista in cui la donna o deve sottomettersi o deve cercare di diventare uguale all’uomo.
Anzi probabilmente è un’immagine ancor più lesiva della figura femminile, perché si insinua subdolamente nel desiderio di realizzazione professionale e priva la donna della possibilità di realizzarsi in quanto donna (il che, in teoria, non dovrebbe implicare il rinunciare alla carriera).
Non è così che si realizza la vera parità, l’uguaglianza per cui da decenni le donne si battono. È una distorsione della realtà che nasce dal non considerare le profonde ed innate differenze che esistono tra uomini e donne. Non è solo la psicologia ad ergersi a difesa di tali naturali caratteristiche, evidenziando come la donna sia per natura più sensibile alle emozioni, empatica, propensa alla collaborazione e all’altruismo, mentre l’uomo è più razionale, oppositivo, autosufficiente e sicuro di sé. Oggi anche la neurologia ci dice che il cervello femminile e quello maschile funzionano diversamente, per semplici questioni ormonali e strutturali che li rendono profondamente differenti.
Ciò vuol dire che “imporre” alla donna di sentire, pensare e comportarsi come un uomo coincide con l’imporle di andare contro il suo cervello e la sua psiche, contro ciò per cui la natura l’ha “programmata” da sempre. In altri termini significa andare contro il progetto di Dio sulle donne, contro quella originalità (come la definisce Chiara Lubich) che Lui ha pensato per loro.
Con questo non voglio assolutamente dire che la donna non sia nata per far carriera nel mondo del lavoro: sono figlia della nostra società e come tale desidero sentirmi pienamente realizzata attraverso la mia professione, oltre che nella vita familiare. Ritengo però che sia profondamente ingiusto mettere costantemente le donne davanti alla scelta non tanto tra famiglia e lavoro, quanto a quella più sottile tra fedeltà a se stesse e alla propria natura (ivi comprese le aspirazioni professionali) e rinuncia alla loro femminilità per sentirsi realizzate anche nella carriera. Il mondo del lavoro, infatti, oggi ci parla quasi esclusivamente di lotte per raggiungere una certa sedia e in un simile contesto è molto facile che le donne rinuncino alla gentilezza, all’empatia, alla capacità di ricomporre i conflitti e trovare soluzioni loro tipiche, perché chi si comporta in tal modo difficilmente può far carriera.
Sostanzialmente quello che ci viene inculcato è che non si può essere femminili e professionali, delicate ed efficienti, gentili e vincenti nel mondo del lavoro. Vogliono farci credere che se la donna si comportasse come è nella sua natura più profonda apparirebbe debole, inadatta a ruoli di grande responsabilità.
Questi pregiudizi rischiano, oltre tutto, di avere un impatto distruttivo sull’educazione delle prossime generazioni, perché madri che hanno lottato a denti stretti per raggiungere posizioni di un certo livello insegneranno alle loro figlie ad essere sempre meno “femminili” e più “maschili” per arrivare a simili obiettivi, con la conseguente perdita di una delle meraviglie del mondo: la complementarietà uomo-donna, la capacità di essere diversi e di integrarsi proprio perché tali.
Come si esce da un simile processo? Di certo con politiche sociali e lavorative più oculate, in cui si miri all’accettazione delle diversità come risorse e non come limiti. Ma soprattutto con la sensibilizzazione delle persone, donne ed uomini in pari misura, a queste tematiche.
Come stanno facendo Lorella Zanardo e Marco Malfi Chindermi, prima con il documentario “Il corpo delle donne” ed ora con una serie di incontri nelle scuole e seminari in tutta Italia ed un blog, nel quale propongono spunti di riflessione molto interessanti. Perché la donna ha lo stesso diritto dell’uomo di essere pienamente se stessa e di veder riconosciute le sue doti e le sue peculiarità. E per questo diritto è ora che si muova un nuovo femminismo, fatto di uomini e donne consapevoli delle ricchezze che ciascun essere umano nella sua unicità ha da donare al mondo.