Dottore al di là “del muro “

non bastava infatti a trattenere nel paese le menti che cercavano con tutti i mezzi di evadere. “Io – dice Giuseppe Di Giacomo -, giovane medico chirurgo, laureato a Perugia, durante la specializzazione in anestesia e rianimazione a Firenze avevo conosciuto il Movimento dei focolari. In poco tempo avevo preso la decisione di dedicare tutta la mia vita a Dio in esso. Un giorno Chiara Capitale (Hauptstadt der Ddr, era chiamata allora). Successivamente, dopo altri 14 mesi, mi fu possibile trasferirmi nell’ospedale di San Nepomuceno a Erfurt, col compito di organizzare un servizio di anestesia e rianimazione, allora inesistente”. L’ospedale comprendeva 450 letti, distribuiti in quattro reparti con le principali specializzazioni, un pronto soccorso aperto giorno e notte e pochissimi medici, aiutati da qualche studente in medicina. I casi gravi e difficili non si contavano. Le attrezzature erano scarse o obsolete da almeno un decennio rispetto a quelle conosciute in occidente. “Ci sarebbe stato di che scoraggiarsi – è sempre il dott. Di Giacomo -, se non avessi mantenuto un rapporto strettissimo, direi vitale, con gli altri focolarini medici che, sia a Berlino che a Lipsia, si confrontavano con una situazione analoga alla mia. Si faceva il possibile, nei brevi spazi di tempo libero, per incontrarci, scambiarci esperienze di vita e di lavoro. Ogni incontro era per ognuno di noi di grandissimo arricchimento spirituale oltre che professionale”. Già dai primi mesi, il dottore venuto dall’Italia si accattivò la simpatia della direzione e la stima dei colleghi, che potevano valutare i vantaggi dell’anestesia moderna, della terapia del dolore e della rianimazione, eseguite con tecniche aggiornate. Ben presto gli fu affidato un modesto reparto interdisciplinare con sette letti e poco dopo, grazie alla costruzione di un nuovo padiglione, fu messo a sua disposizione un intero piano per la terapia intensiva, dotato di modernissime attrezzature procurate dalla Caritas e dai cristiani della Germania occidentale. Gli fu concessa inoltre la facoltà di specializzare in anestesia dei giovani laureati. “L’Ideale dell’unità che mi sosteneva – prosegue – mi ha aiutato inoltre a stabilire rapporti familiari, in un clima di calda, e sentita collaborazione, sia con il personale medico che con quello infermieristico, in reparto e in sala operatoria, non escludendo neppure gli addetti alle pulizie, ai controlli elettrici ecc. Il tutto a vantaggio dei pazienti che quasi sempre erano ammalati gravi. Ogni giorno richiedeva un supplemento di energie fisiche, spirituali e… di aiuto divino per farcela, superando momenti pesanti di vero stress, con tutte le inevitabili difficoltà legate a un ambiente di sofferenza e a volte di morte. Le parole del Cristo sofferente: “L’hai fatto a me”, apprese dal vangelo, mi erano davanti ogni minuto e la gioia, la soddisfazione più grandi erano quando ammalati, già gravissimi, potevano lasciare, migliorati o guariti, il reparto. Anche a distanza di anni ci giungevano da loro o dai familiari lettere di ringraziamento o segni di gratitudine e riconoscenza. “Posso dire – è sempre il dott. Di Giacomo – che il rapporto con il personale era veramente molto gradevole e la reputazione raggiunta grande, tanto che spesso colleghi dell’università statale preferivano curare i loro ammalati nel nostro reparto. Ci venivano anche chieste conferenze di aggiornamento professionale a medici della città, e venni chiamato a far parte del consiglio regionale per l’organizzazione e pianificazione dei reparti di anestesia e dei centri trasfusionali di tutta la provincia”. Nell’87 si trasferì a Lipsia, dopo 23 anni di lavoro, lasciando a Erfurt un reparto con sette anestesisti, di cui alcuni stavano completando la loro specializzazione, e venti tra infermieri e infermiere. Un’assistente, pochi giorni prima del congedo dall’ospedale, gli scriveva: “Mi è difficile dire che cosa sia stata lei per me in questi ultimi sette anni… Il mio sogno, fin dall’infanzia, era diventare medico umanamente e professionalmente, ma avevo avuto pochi esempi da seguire. Ora, oltre l’ampia, concreta e profonda specializzazione, le sono particolarmente grata perché lei è riuscita a rendermi consapevole di quanta gioia si possa raggiungere attraverso il donarsi agli uomini che incontriamo sul lavoro e nel privato”. Terminato il racconto, il medico umbro mi porge la trascrizione di un documento quasi scioccante: un rapporto che la Stasi, i servizi segreti del ministero degli interni della Ddr, aveva scritto in quegli anni su di lui, dopo indagini durate a lungo e interrotte solo nell’86, perché la sua attività era “di carattere puramente umanitario”. Era scritto, dopo la descrizione della sua carriera medica in Ddr: “Assolve i compiti a lui affidati dalla direzione con molto impegno e prontezza di azione. Ha un carattere tranquillo, equilibrato, razionale e riservato, ed è molto apprezzato dai colleghi. Si impegna per i pazienti al di là di ogni misura e con grandissimo senso di responsabilità; lo si constata dal fatto che non si allontana per giorni e giorni dal posto di lavoro quando i suoi pazienti hanno bisogno di lui. Per quanto riguarda i motivi che hanno indotto il medico a vivere nella Ddr, non sappiamo niente di definitivo. Forse si tratta del compito di contribuire all’edificazione del Movimento dei focolari, che è un gruppo nato all’interno della Chiesa cattolica. I suoi membri vogliono vivere in modo tale da trasmettere alle persone che stanno intorno a loro gioia e ottimismo; devono distinguersi per cordialità, fiducia e misericordia”. Giuseppe Di Giacomo ride e commenta: “I motivi sui quali la Stasi non sapeva “nulla di definitivo”… Un motivo c’era, assai valido e non rintracciabile dai servizi segreti di qualsiasi parte del mondo, perché non aveva a che fare né con la politica né con l’economia, il potere e la giustizia umana. Era l’ideale della fraternità universale che ci spingeva con veemenza a far sentire a tutti quelli che abitavano Oltrecortina, indipendentemente dalle loro convinzioni, che c’era un Padre che pensava a loro”. Breve pausa. Mi mostra quindi un album zeppo di foto di quegli anni, per lo più in bianco e nero. Belle, anzi bellissime, e non per motivi tecnici. Un altro piccolo album raccoglie poi foto più recenti: sono quelle di ambienti e persone che attualmente vivono e lavorano nel “suo” reparto, cercando di mantenere lo stesso clima, la stessa calda collaborazione di allora. “Nel settembre dello scorso anno – conclude – sono passato da Erfurt. Mi sono recato a salutare tutte queste persone in ospedale; tengono duro, con tenacia e “controcorrente”, nonostante il clima di individualismo e di concorrenza che, dopo la caduta del muro, il capitalismo ha portato anche lì. Mi auguro proprio che ce la facciano”.

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