Doppio mirabile Cechov

Èun encomiabile Ivanov, la versione del regista magiaro Tamás Ascher per il Teatro Katona di Budapest. Un tuffo rigenerante nel conosciuto universo di Cechov, tonificato qui da un’interpretazione magnifica non solo del protagonista Erno Fekete – intenso sia nell’inerzia del vivere, che nell’esplosione del pessimismo congenito -, ma di tutta una compagnia in perfetta sintonia nella stratificazione di stati d’animi che riflettono la crisi (economica nelle apparenze, ideale e morale nella sostanza) di una classe sociale. I tormenti del disfattista per vocazione Ivanov, proprietario terriero che ha dilapidato beni e giovinezza, dibattuto tra l’impossibile passione della fresca Sasha e l’amore che non riesce più a dare all’ancora giovane moglie malata di tisi e lasciata morire, culminano nel tentativo finale di uccidersi al termine di ripetute inquisizioni su se stesso e un attimo prima del nuovo matrimonio. Ascher, diversamente dalle intenzioni di Cechov, non gli dà la forza neanche di premere il grilletto, ma lo fa svenire come per un malore lasciando degli attimi di attonita sospensione in tutti. La coscienza del proprio fallimento, tutta pervasa da sensi di colpa e voglia di riscatto, si consuma nella scena anni Settanta, estesa in profondità – un freddo casermone stile casa del popolo che diventa anche salotto -, costellata di porte e di sedie. L’effetto di dispersione nei personaggi che, tra immobilità e frenesia, vi disegnano le loro traiettorie, è reso da un clima a tratti da allegra brigata che alimenta gesti che ne stimolano altri e, con le misurate stonature delle gag, schiudono voragini esistenziali nel magistrale affresco in movimento, straboccante di dettagli, e vitalizzato da canzonette italiane di quell’epoca. Di tradizionale fattura, ma luminosamente bello, è il Cechov del Théatre National Populaire di Roger Planchon, Lesij, Lo spirito della foresta, definito dramma ecologista ante litteram per il protagonista del titolo: un medico deciso a salvare le foreste dall’insensata opera di distruzione e che, a forza di troppo amore per gli alberi, dimentica l’amore per gli esseri umani. Il testo non piacque allo stesso autore che lo abbandonò per riprenderlo sette anni più tardi e sviluppare il celebre Zio Vanja. A differenza di quello, in questo c’è il finale dove, dopo il suicidio dell’infelice e fallito George, la vita riprende normale e si incastra pure il (parziale) lieto fine di un amore agognato. Anche qui la melodrammatica e caotica inquietudine dei personaggi, risucchiati dalla noia di provincia, sognanti sempre un’esistenza migliore, trova nell’allestimento una regia mirabile: la musicalità nel ritmo di movimenti e negli intrecci dei dialoghi, accompagnata dal chiarore pittorico della scena azzurra con in mezzo tronchi mobili di betulle, ne fanno uno spettacolo da aggiungere al miglior Cechov. UN MERCANTE IN DANZA Non funziona del tutto Il mercante di Venezia del Kunglica Dramaten di Stoccolma. Per il semplice fatto che, volendo coniugare teatro e danza, nel bilanciamento dei due generi il risultato è diseguale e a tratti pantomimico. Ci saremmo aspettati una versione più danzata (e alcune scene, per le idee drammaturgiche in movimento, come quella d’amore tra Lorenzo e Jessica fluttuanti nell’aria, ci lasciano senza fiato) dato che regista del pur bello spettacolo dell’opera di Shakespeare è quel grande e versatile uomo di teatro, il coreografo Mats Ek. Alla sorella gemella Malin egli ha affidato il ruolo dell’usuraio Shylock, da tutti detestato, per rendere maggiormente un senso di emarginazione e straniamento, al quale l’attrice conferisce un’umanità sofferta. A vincere, comunque, nell’allestimento è la scena con tre case giocattolo di diverso volume e colore a simboleggiare i fatidici scrigni d’oro, argento e bronzo, con cui l’aristocratica giovane Portia mette alla prova i suoi pretendenti fra cui il nobile Bassanio. Con dei semplici, geniali ribaltamenti e un gioco di luci e ombre, evocheranno una Venezia di campielli, stanze e palazzi, atmosfere rarefatte di sapore chagalliano, trasportandoci in una dimensione di sogno.

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