Dopo le violenze interreligiose in Myanmar

Divisioni tra le correnti del buddismo nel mondo. L’intervento del Dalai Lama. L’internazionalizzazione del contenzioso. La necessità del dialogo e il possibile apporto della Chiesa Cattolica.
Manoco buddhista alla pagoda Shwedagon a Yangon

Uno dei principali autori degli attacchi perpetrati negli ultimi tempi dai buddhisti contro i Rohingya musulmani in Myanmar è il monaco Ashim Wirathu, già imprigionato nel 2003 e rilasciato nel 2012. Lui stesso si è definito “il Bin Laden birmano”. Si tratta sicuramente di una figura controversa del buddhismo birmano. Durante i suoi sermoni ha spesso incitato alla lotta contro i musulmani e poco sono valse le raccomandazioni delle autorità affinché terminasse questo incitamento all’odio.

L’articolo del Time di pochi mesi fa, dove veniva citato come prima causa della lotta, ha scatenato un autentico putiferio tra i buddhisti birmani sparsi nel mondo. La situazione rimane tutt’ora pesante tanto che è sceso in campo anche il Dalai Lama dichiarando: «Basta con le violenze dei buddisti contro i musulmani: è tempo che i monaci proteggano i fratelli musulmani dagli attacchi della popolazione». Verrà ascoltato? Molti ne dubitano, anche perché il Dalai Lama non ha nessuna influenza sul buddhismo del Myanmar, essendo considerato una figura di rilievo politico non spirituale.

Il buddhismo tibetano, di cui il Dalai Lama è capo spirituale e politico, è visto con scetticismo e quasi come una setta dai monaci (più tradizionali) del “Piccolo Veicolo”, diffusi in Sri Lanka, Myanmar, Thailandia, Laos e Cambogia. Qui l’intervento del Dalai Lama non è conosciuto né dalla gente comune né dai monaci buddisti, in quanto sia i giornali locali importanti che le riviste autorevoli non l’hanno riportato. In Asia la figura del Dalai Lama non è messa in luce né ha l’influenza che ha in Occidente.

La situazione politica in Myanmar si è nel frattempo decisamente internazionalizzata. Tanti paesi musulmani sono corsi in aiuto dell’etnia Rohingya e le notizie delle persecuzioni hanno fatto il giro del mondo, come anche le foto dei monaci a capo della rivolta.

Bisogna anche ricordare che il settembre 2007 ha visto la pacifica rivoluzione portata avanti dai monaci, contro il governo e a favore della gente. Agli occhi occidentali è apparsa pacifica, ma non certo per i buddhisti. I monaci marciavano per le strade con le loro ciotole (dove ricevono il cibo dato in offerta) rovesciate, segno che non avrebbero più accettato cibo dai militari. Un gesto determinato e, se vogliamo, in certo modo “violento” nella scomunica verso i militari. Per un devoto buddhista, questo significa chiudergli la possibilità d’acquisire meriti per la prossima vita. La rivolta ha visto una parte della gente che seguiva i monaci uccisa e imprigionata dai militari.

È sicuramente ora d’iniziare a dialogare seriamente, tra le religioni. In Myanmar si guarda anche alla Chiesa Cattolica, in quanto pratica e diffonde il dialogo interreligioso ormai da lunga data. Vescovi ed sacerdoti saranno quindi chiamati a dare un apporto concreto a questo dialogo. Anche papa Francesco è un esempio attualissimo: qui, in Asia, le sue parole fanno notizia, i suoi gesti sono d’esempio e sono seguiti da tutti i rappresentanti delle grandi religioni.

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