Dopo Dallas non c’è un dolore bianco, né un dolore nero

La morte di cinque ufficiali della polizia e di due uomini afroamericani nell’ultima settimana ha scatenato proteste in varie città, mettendo a nudo il problema razziale che continua a separare il Paese e per cui tutti soffrono. Serve non cedere all’emotività e tornare al dialogo
Dallas

«Nel Bronx se un ragazzo bianco corre è perché ha subìto un reato, se corre un ragazzo nero è perché ha commesso un reato. Figlio mio se sei in pericolo cammina velocemente e non correre perché sarai in pericolo due volte». Non è una storiella da bar quella appena raccontata, né un commento da metropolitana quella raccolta da un’indagine sociologica condotta qualche anno fa a New York per studiare come la differenza del colore della pelle incide sulla valutazione di una persona. La questione razziale negli Usa non è un capitolo chiuso nella storia del Paese, anzi ogni anno sembra si aggiungano nuove pagine, dove la parte del protagonista è ricoperta sempre più spesso da rappresentanti delle forze dell’ordine che premono il grilletto su giovani neri non sempre incriminati.

 

Poi però accade anche il contrario, come è successo giovedì scorso a Dallas, quando Micah Johnson, afroamericano ed ex riservista dell'esercito, ha usato un'arma semiautomatica per uccidere cinque ufficiali della polizia, tutti bianchi, e ferirne altri sette, assieme a due civili, prima che gli agenti lo uccidessero con un robot esplosivo. La sparatoria è avvenuta durante una protesta pacifica di un gruppo di attivisti che manifestavano contro l’uccisione di due giovani di colore in Minnesota e in Lousiana qualche giorno prima.

 

«È riesplosa la questione razziale?», si domandano in tanti, o forse la questione non è mai stata sopita e qualche giornale azzarda persino sulle titolazioni parlando di “Guerra civile”, ma non è questa l’anima del Paese, e non è solo il presidente Obama ad insistere sulla necessità di un dialogo tra la comunità e le forze dell’ordine, proprio quando la sua presidenza sembrava aver segnato un passo in avanti. Domenica il cardinale di New York e vari ministri delle chiese evangeliche hanno espresso la loro preoccupazione «per la violenza insensata. Dal Minnesota alla Louisiana e al Texas, la nazione ha messo sotto esame la sua anima mentre la tristezza e il peso affliggono le nostre comunità afroamericane e le forze dell'ordine».

 

«Stiamo male tutti», ha ribadito il capo della polizia di Dallas, David Brown. Lui è nero. Soffre per la sua gente che è nera ed è bianca allo stesso tempo, perché non può dimenticare che gli agenti bianchi stavano proteggendo una manifestazione del movimento Black Lives Matter (Le vite dei neri contano) e non dimentica che quando hanno avvertito gli spari non sono fuggiti, ma gli sono andati incontro per capirne la provenienza e fermarne l’autore.

 

In queste ore serve riaprire il dialogo proprio perché la ferita nel Paese è dolorante e non si può cedere al cinismo e all’emotività. È indubbio che il video postato dalla fidanzata di Philando Castile di St. Paul, in Minnesota, assassinato senza ragione da un agente, stia provocando forti reazioni emotive, suscitando una partecipazione corale che non riesce a riflettere e contestualizzare, ed è questo uno dei rischi che accompagnano la viralità di queste riprese incentrate sul conflitto e sull’ingiustizia; mentre tutti desiderano che cessino le morti insensate e il rispetto e la sicurezza siano una reale garanzia non legata al colore della pelle. Anche se il governatore Mark Dayton del Minnesota si è chiesto coraggiosamente: «Sarebbe successo tutto questo se i passeggeri fossero stati bianchi? Non credo».

 

Michael Eric Dyson, docente di sociologia alla Georgetown,  autore di The black presidency, un libro su Barack Obama e la questione razziale, in un editoriale del New York Times ha sottolineato che la nazione si sente impotente e «non tutti i bianchi sentono di dover condannare la cultura che ha prodotto queste morti, una cultura che incita all’odio e che continuerà ad armare la mano di altri poliziotti negando che l’essere bianchi faccia la differenza. Ci sentiamo impotenti sapendo che altri neri moriranno, ma non possiamo odiarvi e non possiamo fermarvi».

 

La cultura citata da Dyson è quella che anima parte della campagna elettorale statunitense, soprattutto quella condotta da Donald Trump, che continua ad imputare violenze e criminalità ai musulmani neri e ai latinos, incurante di coltivare discriminazione e divisione.

 

Sullo sfondo continua a restare aperta la questione del possesso indiscriminato di armi ,che in Texas gode di particolari privilegi e autorizzazioni, come l’esposizione in luogo pubblico di fucili a canna lunga e di pistole. Non erano poche quelle che facevano bella mostra di sé durante la manifestazione di Dallas e che hanno confuso gli agenti nell’individuare il cecchino e hanno portato all’arresto di diversi manifestanti per una verifica della loro innocenza o partecipazione. Il primo agosto, nello Stato, entrerà in vigore una legge che consentirà agli studenti universitari di portare pistole nelle aule. E nuove lacrime torneranno a rigare i volti di bianchi e di neri.

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