Il dono della differenza

Una convivenza è tanto più significativa, dal punto di vista antropologico, quanto più relazionalità contiene.
Una coppia

Negli ultimi articoli ho cercato di delineare una fenomenologia dell’amore sullo sfondo della realtà di matrimonio e famiglia, “istituzione dell’amore”, secondo il teologo Jeanrond, che attraversa oggi, specialmente in Occidente, una profonda crisi. Si arriva a “uccidere per amore” il proprio partner (come nel femminicidio), quando questi non risponde più alle esigenze che il “proprio amore” ha imposto alla relazione. Il problema nasce quando si mette l’io come punto di partenza nel rapporto: io che faccio, io che voglio, io che amo. Risulta eccessivo, per esempio, lo spazio che si concede nella stampa a certe figure mediatiche (artisti o sportivi) che hanno figli concepiti tramite fecondazione artificiale con l’aiuto di un utero in affitto. La dinamica è sempre la stessa: l’arroganza dell’io. Ma siccome una persona chiaramente egoista o egocentrica è troppo vulnerabile dal punto di vista dell’immagine pubblica, il fenomeno a cui alludo è più sottile: la prepotenza dell’io viene mascherata sotto forma di realizzazione individuale.

Per superare questa supremazia dell’io ho proposto un indicatore di qualità della convivenza tra le persone: la ricchezza di relazionalità. Una convivenza è tanto più significativa, dal punto di vista antropologico, quanto più relazionalità contiene.

Ebbene, mi permetto una frase controcorrente: il matrimonio eterosessuale è il modello di convivenza tra persone più rilevante dal punto di vista antropologico, perché più ricco di relazionalità. E il modello di famiglia che ne deriva, è dunque quello più ricco di relazionalità e più antropologicamente significativo.

Più significativo perché più simbolico. La parola “simbolo” proviene dal greco come unione tra il prefisso sym (insieme) e il verbo ballo (mettere): “mettere insieme”.

La figura per eccellenza di “simbolo” sono due anelli diversi che si intrecciano. L’unione tra un uomo e una donna è profondamente simbolica, il massimo che possa pensarsi nell’ambito dell’umano. A questo contribuisce la diversità sessuale, con tutto ciò che comporta, tra cui l’apertura naturale – cioè intrinsecamente legata al rapporto corporale – alla procreazione di un nuovo essere umano. Se poi questa unione viene sancita socialmente (davanti alla società) e sacramentalmente (davanti alla comunità e a Dio), essa risulta ulteriormente arricchita di relazionalità. Per questo la Chiesa (“ricca in umanità”) benedice solo il matrimonio eterosessuale, riconoscendolo come segno dell’unione tra Cristo e la Chiesa. Il divino è sempre realizzazione dell’umano.

Il matrimonio eterosessuale mette in luce un dato antropologicamente rilevante: il dono della differenza. Desta perplessità che questo dono, tanto valorizzato in un mondo globalizzato come il nostro, sia oggetto di così poco apprezzamento nel campo dei rapporti interpersonali e di genere. Sono cosciente che alla base di questo atteggiamento vi sia il rifiuto del modello patriarcale (e matriarcale) della famiglia.

Ma il superamento di tale modello non può consistere nell’oscuramento del dono della differenza.

Alla fine della nostra vita saremo giudicati sull’amore, e solo Dio Amore è davvero competente in amore. Ciò che noi possiamo dire è che, dal punto di vista antropologico, quando la categoria della relazionalità diventa unità di misura, il matrimonio eterosessuale e la famiglia che ne deriva, nella loro festosa drammaticità, rappresentano la piena realizzazione dell’amore.

Vorrei terminare con il bel poema del poeta ebreo Erich Fried (1921-1988):

È assurdo, dice la ragione. È quel che è, dice l’amore.

È infelicità, dice il calcolo. Non è altro che dolore, dice la paura.

È vano, dice il giudizio. È quel che è, dice l’amore.

È ridicolo, dice l’orgoglio. È avventato, dice la prudenza.

È impossibile, dice l’esperienza. È quel che è, dice l’amore.

 

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