Donne (e uomini), non solo corpi
Una campagna di sensibilizzazione dell'Udi consente di approfondire il senso della mercificazione dei corpi.
In qualunque città italiana, nelle piazze storiche come nei quartieri periferici, negli svincoli autostradali come lungo le strade commerciali, immagini pubblicitarie di grande formato fanno parte a pieno titolo del paesaggio urbano. Enormi sagome femminili si stagliano sulle facciate di case, persino sui monumenti storici temporaneamente in ristrutturazione.
Questi corpi non nascondono significati reconditi, un primo livello di analisi è elementare ed evidente. Come scrive John Berger, critico d’arte e pittore inglese al di sopra di ogni sospetto di approccio moralizzante, nel suo libro Questioni di sguardi. Sette inviti al vedere fra storia dell’arte e quotidianità (2002), l’immagine femminile viene vincolata alla capacità di attrattiva sensuale e sessuale e viene intenzionalmente sfruttata in ambito pubblicitario alla stregua di una merce per valorizzare e promuovere altra merce. Tutti ne siamo consapevoli: le curve generose della giovane donna servono a fare vendere il noto yogurt, l’automobile, il corredo intimo, il profumo; l’atteggiamento di volta in volta aggressivo o compiacente è funzionale a vendere il prodotto. La logica commerciale ricorre al più elementare e meccanico dei riflessi animali.
Proviamo però ad interrogarci più in profondità. Un bravo fotografo milanese ha provato a fare un esperimento: nelle scene metropolitane colte dal suo obbiettivo gli enormi cartelloni pubblicitari sono stati ripuliti del marchio che pubblicizzano e l’effetto è straordinario. Se togliamo la marca e il prodotto che rende “necessarie” quelle immagini, l’effetto di smascheramento è più evidente. Quelle stesse enormi sagome femminili, cui l’occhio di grandi e piccoli si è andato nel tempo assuefacendo, appaiono ancora più fuori luogo. Di quale essere umano ci parlano? Quale immaginario stanno alimentando dentro di noi? Ci rendiamo conto di come queste immagini costruiscano visioni del mondo condivise, spesso acquisite in modo inconsapevole, nell’abitudine e nell’indifferenza del nostro sguardo: corpi femminili sotto sforzo, impegnati in torsioni e innaturali movenze, sempre e solo giovani, spesso colti in atteggiamento aggressivo, oppure corpi emaciati, occhi che non guardano, alienati, labbra che mai si schiudono in un sorriso, il più umano e umanizzante dei nostri riflessi.
A questa proliferazione di immagini della donna degradanti nello spazio pubblico come nei mezzi di comunicazione vuole reagire la campagna promossa l’8 marzo dall’Unione donne in Italia, intitolata “Se ci offendi non vale”. Una campagna ampiamente condivisibile negli obiettivi e nelle proposte, che spinge a reagire al sopruso culturale di questo linguaggio e al contempo invita ad utilizzare immagini positive, “immagini amiche”, che parlino di altri modi di essere dei corpi (e non solo) delle donne.
Due aspetti richiedono però di venire evidenziati. È certamente vero che l’uso che viene fatto del corpo della donna è degradante e svilente la sua dignità, ma più in generale ad emergere è una rappresentazione sbagliata e diseducativa della relazione tra uomo e donna. Dietro ogni rappresentazione volgare della donna, si presuppone l’esistenza di un uomo disposto a “consumare” tale immagine, un uomo ridotto al proprio istinto sessuale più meccanico, sempre e comunque potente dominatore. Oppure si presuppone l’esistenza di donne che amano perdere tempo valutando corpi di altre donne (se no, perché le riviste femminili sono piene di immagini così?). Lo stereotipo di genere dunque mi pare inchiodare sia le donne che gli uomini e segnare lo scacco di una positiva relazione tra i generi. La reiterata messa in scena nella pubblicità di rapporti di dominanza, di violenza latente, di sottomissione rischia di entrare nelle modalità di relazione tra ragazzi e ragazze, tra uomini e donne in forme subdole e inconsce. Le immagini, infatti, mentre riflettono la cultura, nello stesso tempo contribuiscono a crearla e rinforzarla.
Inoltre, sempre più frequentemente, il panorama urbano si è riempito anche di muscolosi e levigati corpi di uomini, di efebici ragazzi, di figure dall’identità sessuale incerta ed ambigua pronta a sollecitare in eguale misura uomini e donne (e soprattutto i ragazzi più giovani). Un aspetto ancora poco evidenziato e che forse richiede maggiore riflessione.
Infine, un ultimo aspetto: i paesaggi urbani che attraversiamo a piedi nelle nostre città, con il treno o in macchina nelle nostre vite pendolari sono sempre più poveri e banali. Il degrado e l’abbandono degli spazi pubblici si accompagna all’immagine patinata e ai colori sgargianti delle pubblicità. Rischiamo facilmente di assuefarci a questa banalità, di abituarci ad incontrare spazi privi di qualità e di significati. E quando il nostro occhio si abitua a questi paesaggi, la nostra testa può venire più docilmente guidata dove non scegliamo di andare.
È allora in gioco la nostra dignità, certo, ma anche la nostra libertà di uomini e di donne. Libertà di guardarsi negli occhi, di incontrarsi nel profondo.