Donne disabili in viaggio
La Cooperazione italiana allo sviluppo ha promosso una ricerca, condotta dall’Università di Firenze, sulle organizzazioni di persone con disabilità e le condizioni delle donne con disabilità nei territori palestinesi occupati. La ricerca è iniziata nel 2014 e in questi giorni una delegazione di donne palestinesi è venuta in Italia a presentare la loro esperienza in alcune università e anche alla Camera dei deputati, suscitando grandissimo interesse.
Sei donne, provenienti dalla Cisgiordania e anche una da Gaza. Donne giovani, con disabilità motoria e visiva, che operano nelle loro Ong e hanno raccontato la fatica della loro vita nelle città e nei paesi dove abitano.
In Palestina è disabile il 2,5% della popolazione, circa 130 mila persone. La ricerca tocca molte questioni, dalla salute allo studio, al lavoro, al matrimonio, alla violenza. I contenuti sono stati raccolti tramite interviste, che hanno coinvolto le associazioni dei disabili e alcune città come Betlemme, Jenin, Nablus e Rahamalla. Nella sostanza ne viene un quadro non molto diverso dal nostro.
Alcune sono organizzazioni molto piccole e i loro beneficiari oscillano tra 100 e 400, mentre altre sono molto grandi e i beneficiari arrivano fino a 40 mila, in un lavoro che è in atto da 7 anni.
Il campione è composto da 157 intervistati. Il 50% sotto i 30 anni, il 29% tra 30 e 50 anni, e infine l’11 con più di 50 anni. Dunque un campione giovane, con molte attese e domande per il suo futuro.
Un’altra variabile che può essere presa in considerazione dal campione della popolazione è relativa alla condizione di rifugiato. Delle intervistate, 37 donne con disabilità sono rifugiate (il 21% del campione), 135 non lo erano (dunque il 77% del campione) e due non hanno specificato il loro status.
Per quanto riguarda il tipo di disabilità, il tasso più elevato delle intervistate pari a 81 (il 46% del campione) è costituito da problemi di disabilità motoria, seguita da donne con disabilità visiva, pari a 24 (13,8%) e disabilità uditiva, pari a 21 (il 12%). 24 donne intervistate (il 13%) avevano disabilità multiple, mentre 13 avevano difficoltà di apprendimento o disabilità mentale, e tre avevano disabilità verbali. Un ulteriore 1,7% soffre della sindrome di Down e 5 non hanno specificato la loro disabilità.
Vale anche la pena di notare che tra le intervistate ,108 donne sono nate con disabilità (il 62% del totale), mentre per 62 di esse (il 35%) la disabilità è legata a problemi di salute (44 donne disabili, 71%) di incidenti (12 donne disabili, il 19,3%) o di errori medici (5 donne disabili, l’8,1%) avvenuti durante il corso della loro vita
Il metodo delle interviste permette di uscire dal percorso dei numeri, ma lascia aperti molti problemi. Non c’è nessun confronto con le donne israeliane, che vivendo accanto alle donne palestinesi, inevitabilmente sperimentano problemi di dialogo e di incontro, di vicinanza e di lontananza?
I percorsi riabilitativi sono gli stessi o basta attraversare il valico di Heretz e il mondo cambia radicalmente?
I centri protesici israeliani sono adeguati, sono accessibili anche alle donne palestinesi?
Non è possibile un dialogo e un incontro tra le donne palestinesi e israeliane per superare i muri dell’accessibilità e della dignità della vita?
C’e una disabilità prodotta nei confronti delle donne palestinesi dalla guerra a Gaza, che attualmente non è ancora risolta?
Le donne disabili palestinesi, insieme alle donne disabili israeliane, non possono diventare protagoniste del processo di pace, valorizzando i diritti delle persone disabili israeliane e palestinesi?
Non c’è il rischio di isolare le donne palestinesi nel loro recinto di donne disabili, senza porle come grandi protagoniste di una politica di abbattimento delle barriere, dei muri, del muro?
Le persone disabili, le donne disabili non si contentano di un approccio corporativo per difendere i loro diritti, ma vogliono essere protagonisti di una grande politica con la loro mitezza e fortezza. Mai come in questo caso, si può e si deve pensare a una cooperazione per la pace e la riconciliazione. Niente meno di questo. Le donne palestinesi non vogliono essere in ultima fila, non si contentano di qualche viaggio in Italia, vogliono costruire il futuro pacifico del Medioriente.
È venuto il tempo, ed è questo: che le donne disabili, in Palestina e in Israele, diventino protagoniste di una politica della pace. Se la pace non viene fatta dalle donne disabili, tanto meno sarà fatta dai politici, dai militari, dagli estremisti, che producono la cultura dei muri. E vivono del conflitto e della violenza.
Chi vive nella sua carne la forza e il valore della non violenza, del primato dell’altra e dell’altro. Le donne disabili palestinesi, quelle che abbiamo incontrato a Roma e a Firenze in questi giorni, vogliono essere protagoniste di una politica mite, che cambi i cuori e l’intelligenza di coloro che vivono lo stigma della sofferenza e della esclusione.
Negli ospedali israeliani ho incontrato molte mamme israeliane e molte mamme palestinesi, che accompagnavano i loro figli per la cura. I loro sguardi condividevano la sofferenza per la cura dei figli, anticipazione reale di un tempo futuro di pace, di condivisione e di dialogo. Al tempo stesso sperimentavano la vicinanza e la tenerezza di chi pensavano come nemica, e scoprivano come sorella.
Usciamo dai recinti e percorriamo il sentiero di Isaia, il sentiero faticoso della pace, il sentiero della sororità e della fraternità. Ecco la nuova cooperazione: un cooperare per riconciliare, espressione non delle Ong, ma di coloro che sono vittime della violenza e del suo stigma.
Questi due progetti (la cura dei bambini palestinesi negli ospedali israeliani – Saving children e questa ricerca sull’attività delle associazioni delle donne disabili palestinesi) – mostrano che è possibile cambiare passo nella cooperazione, uscire dal piccolo corporativismo delle ong ed entrare nella grande ambizione di una pace senza muri e senza frontiere, dove tutti siano accolti nella loro dignità, nella loro diversità e nella loro disabilità.