Donne d’Arabia

Un articolo apparso su The Guardian del 7 maggio racconta una storia di tre sorelle, Maryam, Manahel e Fawzia al-Otaibi, accusate di terrorismo nel loro Paese, l’Arabia Saudita.
Una foto resa pubblica nel 2011, che ritrare le prime 15 donne ad ottenere il titolo di avvocato in Arabia Saudita, insieme alle loro professoresse. ANSA/Dar Al-Hekma media office

Merita conoscere la vicenda delle sorelle al-Otaibi e cercare di capire perchè un tribunale ha condannato a 11 anni di carcere una di loro, Manahel al-Otaibi, una donna di 29 anni, fisioterapista, giudicandola colpevole di protestare per la mancanza di libertà delle donne saudite, ancora oggi soggette per legge ad un tutore maschio; e per aver postato foto di se stessa in jeans, maglietta e giubbotto, cioè senza indossare il tradizionale abito femminile saudita, l’abaya, e il relativo velo, l’hijab.

Undici anni di carcere sono tanti per qualche contestazione e alcune foto sui social: secondo il nostro metro di giudizio non si tratta certo di complotti terroristici. Invece, e la cosa lascia senza parole, è proprio sulla base di una norma di questo genere che è stata emessa la condanna. Si tratta degli articoli 43-44 della legge saudita contro reati di terrorismo, che punisce «ogni persona che crea, avvia o utilizza un sito web o un programma su un computer o su un dispositivo elettronico… o pubblica informazioni sulla fabbricazione di ordigni incendiari, esplosivi o di qualsiasi altro dispositivo utilizzato per crimini terroristici», compresa – e qui sta il punto – «ogni persona che, con qualsiasi mezzo, diffonde o pubblica notizie, dichiarazioni false, calunnie o simili per commettere crimini terroristici». Detto in altri termini, Manahel al-Otaibi è colpevole di aver contestato «la religione e la giustizia». Almeno queste sono le parole usate dalla sentenza. Dove, evidentemente, con religione si intende l’Islam waahbita e con giustizia quella della monarchia assoluta saudita.

Dicevamo che le sorelle sono tre, tutte e tre sotto tiro, ma quella che ha forse scatenato di più le ire dei mutawwi’a, è stata Fawzia. Fra parentesi, i mutawwi’a sono gli agenti del “Comitato per l’imposizione della virtù e l’interdizione del vizio”, la versione saudita di quella che noi, per incapacità di trovare termini adeguati, definiamo polizia religiosa. Perchè già qualche anno fa, Fawzia, avuto sentore che l’avrebbero arrestata per il suo abbigliamento e le sue idee anti-tutorato maschile, è fuggita all’estero, prima riparando a Dubai e più tardi in Bahrein, e alla fine arrivando a Edimburgo, dove vive attualmente. E la terza sorella, Maryam, che vive in Arabia Saudita, ha scoperto quasi per caso di non poter viaggiare perchè sulla sua testa pende un mandato d’arresto sospeso, la cui applicazione rimane condizionata a cosa fa e dice: lei o forse qualche sorella.

Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, scrive: «Dopo l’arresto, Manahel al-Otaibi ha subito violenze fisiche e psicologiche nel carcere di Malaz, nella capitale Riyadh, ed è stata vittima di sparizione forzata per cinque mesi, dal 5 novembre 2023… La condanna di al-Otaibi segna il picco di una campagna repressiva nei confronti della libertà di espressione in Arabia Saudita, sia online che offline. Negli ultimi due anni, i tribunali locali hanno condannato a lunghe pene detentive molte persone per aver espresso le loro opinioni sui social media, comprese diverse donne, fra le quali Salma al-Shehab (27 anni di carcere), Fatima al-Shawarbi (30 anni), Sukaynah al-Aithan (40 anni) e Nourah al-Qahtani (45 anni)». Senza contare – aggiungo io – l’escalation di esecuzioni capitali: 196 nel 2022.

Ma per entare nella storia delle sorelle al-Otaibi rimando all’articolo del Guardian e, in italiano, a notizie e commenti forniti fra gli altri da ilpost.it o da asianews.it all’inizio di maggio 2024. E al sito di Amnesty International Italia.

Vorrei però sottolineare un aspetto più politico e lo faccio prendendo spunto da una citazione tratta da un articolo di Federico Rampini (Corsera, 21 maggio 2024), stralcio di un suo libro appena pubblicato da Solferino Il nuovo impero arabo: «L’Arabia della Vision 2030 sta muovendo i primi passi per conquistarsi un soft power, o egemonia culturale di tipo diverso, non più fondata sul fanatismo religioso e sull’intolleranza». L’inventore e promotore di Vision 2030 è notoriamente il principe Mohammad bin Salman al Sa’ud (MbS). Rampini evidenzia la novità positiva che il piano di MbS potrebbe rappresentare, insieme ad evidenti limiti, e tra questi c’è quello di puntare verso il progresso con metodi autoritari. Che poi sono quelli ereditati dalla dinastia e ben radicati nella mentalità della classe dirigente saudita, giudici compresi.

Eppur si muove? Manahel al-Otaibi ne era convinta, ma forse ci ha ripensato.

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