Donald Trump tra Mosca e Pechino
Se è molto difficile prevedere quali saranno le grandi direttrici della politica estera della nuova amministrazione statunitense guidata dal presidente Donald Trump, si possono però sin d’ora identificare alcuni possibili elementi di forte discontinuità rispetto agli 8 anni di Obama. Certamente, bisogna fare la tara ad alcune dichiarazioni roboanti della campagna elettorale, che dovranno fare i conti non solo con la dura realtà internazionale ma anche con il complesso equilibrio delle diverse agenzie governative all’interno della stessa amministrazione Usa. Un primo dato sembrerebbe acquisito, e cioè una marcia di avvicinamento tra Washington e Mosca dopo il tempo del gelo tra Putin e Obama. Ironia della storia, era stato proprio Obama con il suo vicepresidente Joe Biden ad avviare il suo mandato con l’efficace quanto improduttivo slogan: «Premere il bottone di reset nelle relazioni tra Stati Uniti e Russia». Ora sembra che il reset, cioè il riavvio su nuove basi, si appresti a farlo Trump, ma in un contesto internazionale e in una direzione totalmente diversa rispetto a quella immaginata dal suo predecessore.
Paradossalmente infatti, gli Stati Uniti e la Russia si presentano oggi come Stati contestatori dell’ordine internazionale, specie per quanto riguarda le relazioni economiche e la globalizzazione. In entrambi i Paesi sembra prevalere un accento fortemente nazionale se non nazionalistico, anche se con sfumature radicalmente diverse: all’ipotetico neoisolazionismo americano si contrapporrebbe un velleitario neointerventismo russo. L’aspetto problematico di questa deriva è il pericolo che le istituzioni internazionali, già oggi poco influenti, vedono ridursi ulteriormente il loro ruolo.
Non meno significative appaiono, poi, le prime prese di posizione di Trump nei confronti della Cina, motivate non tanto da ragioni politico-strategiche quanto da motivazioni eminentemente economiche e commerciali. Trump ritiene che la Cina abbia ottenuto i maggiori vantaggi dalla mondializzazione e dalla liberalizzazione degli scambi, e pertanto debba cedere alle richieste occidentali di standard produttivi e sociali più alti. A ciò si aggiunge la richiesta di una rivalutazione della sua moneta. Quello che il neoeletto presidente americano sembra sottovalutare è che i titoli del debito pubblico americano sono anche cospicuamente in mano cinese (1250 miliardi di dollari sui 6 mila miliardi detenuti da operatori stranieri).
C’è poi la dimensione politico-strategica, che passa certamente per la questione di Taiwan, che non credo comprometterà il tradizionale orientamento sull’esistenza di una sola Cina (quella di Pechino), ma implicherà anche le tensioni sul possesso delle isole del Mar cinese meridionale e orientale rivendicate dalla Cina continentale: pretese contestate in particolare da Giappone e Stati Uniti. Siamo su una polveriera, dove ci sarebbe bisogno di pompieri e non di incendiari.