Domingo è Sly

Il timbro morbidamente scuro, la presenza scenica “naturale”: Placido Domingo, cantante e musicista, ha carisma, e a 62 anni affronta un nuovo personaggio, Sly, poeta buffone di matrice scespiriana che l’Opera romana arditamente ha riproposto nell’allestimento della Washington Opera. Trasportata da Marta Domingo dal Cinquecento agli anni Trenta, la “leggenda del dormiente risvegliato” è cadenzata da lustrini fiabeschi, notti palpitanti, interni fumosi nelle scene di Michael Scott che Bruno Monopoli disegna con luci sofisticate. La regia non ha molti guizzi, ma lo spettacolo fila. E la musica? Ermanno Wolf-Ferrari, garbato autore di commedie goldoniane, si misura, nel 1927, coi tre atti e quattro quadri del testo di Forzano, a musicare l’antica vicenda (vedi Plauto, Boccaccio, Cervantes e Calderòn) della beffa atroce che risveglia dal “sogno” di una vita felice un poveraccio, segnando, con la sua morte, la fine dell’illusione: la vita è sogno, insomma, e crudo. Wolf-Ferrari, onestamente, non sembra autore drammatico e il libretto non lo aiuta, così che si resta con l’impressione di un déjà vu. L’orchestrazione, questa sì, è scaltra, raffinata, a coprire una certa povertà d’idee. L’opera, si solleva nel terzo atto: Sly, chiuso in cantina beffato e oltraggiato, alza il tono in un “declamato” nobilmente sincero davanti alla morte e all’amata Dolly: ed è un momento autentico nel contesto di un lavoro di abile professionalità. Domingo comunque “crede” al personaggio, gli dà voce squillante e affondo interpretativo. Lo affiancano le belle voci di Gianfranco Montresor (John Plake) e Alberto Mastromarino (Il conte), nonché l’espressiva Dolly di Elisabetta Matos. Renato Palumbo dirige benissimo l’orchestra, attenta in una partitura dai colori e dai timbri in continuo movimento. Ovazioni per Domingo, naturalmente, e meritate. JEFFREY TATE Tate è direttore sobrio, non plateale, implacabile nel gesto. Non esegue, “interpreta”. Immette nell’orchestra ceciliana sfumature inedite di sensibilità tardoromantica (memorabile lo spessore dei “pizzicati” nei contrabbassi) nella limpida struttura dell’ouverture La consacrazione della casa e poi, sempre di Beethoven, affronta la Quinta Sinfonia: massa di energia dagli stacchi decisi nel primo tempo, fluttuare dei violoncellli nel secondo – con l’insolito rilievo dato ai legni – venato di dolore, fino al Finale tumultuoso, liberatorio. Una lettura per masse che si amalgamano dove un suono ricchissimo fa risplendere una musica che è “pura” allo stato assoluto, senza mediazioni. Altra epoca. Oggi, Ghedini – Concerto dell’albatro, 1945 – esige l’interscambio: così che il trio (piano, violino e violoncello) l’orchestra, la voce recitante (splendido Sandro Lombardi) fanno “vedere” (ma occorrerebbe uno schermo con immagini) la musica, che da modulazioni aperte nel primo tempo, si fa poi cupa fino allo sgomento, balenante nel gioco dei pizzicati, per chiudere con il finale tenerissimo degli archi che danno l’idea del volo: l’albatro si libra in alto e sparisce fra cieli azzurri. Guerra e libertà, sulle parole del Moby Dick di Melville: con un senso del soprannaturale da “poema sacro” (Pavese). Lavoro affascinante, anche grazie al Trio Debussy (Piergiorgio Rosso, Francesca Gosio,Antonio Valentino) e alla concertazione di Tate, giocata sul distillare tinta da tinta fino alla luce-luce. Come accadrà anche con l’amato Richard Strauss (Salomè, Vita d’eroe) in cui tre sole note – nella lezione di Tate – sono capaci di aprire un mondo. Successo vivissimo. Riccardo Musacchio

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