Dominati dall’incertezza
«Lunedì mi partirà tutta la mattinata, se va bene, per chiedere, per l’ennesima volta, la disoccupazione». Così Maria, anche se questo potrebbe non essere il suo nome, inizia a raccontare in un caldo sabato pomeriggio. «Ed io, anche se una cattedra mia non l’avrò mai purtroppo, sono, comunque, fortunata. Ho due figli belli e sani. Mio marito ha un’entrata fissa e, anche se a settembre la graduatoria non dovesse esser favorevole, in qualche modo, ce la caveremo». Maria è un’insegnante precaria, come tante in Italia, e vuole denunciare lo stato dell’arte. È stanca, visibilmente, affranta per la situazione in cui versa il mondo che ama e nel quale ha passato più di metà della sua esistenza: la scuola.
«Ma come fa il nostro Stato a non rendersi conto della vita alla quale ci obbliga? Io, in tutto questo, ripeto, mi reputo fortunata. Ma se penso alle mie colleghe, con figli, con il marito disgraziato, separate o divorziate, io non so veramente come fanno ad andare avanti in questa costante incertezza». Racconta mentre guarda a ripetizione l’orologio perché il figlio adolescente è fuori con gli amici, mentre il più piccolo è completamente preda di un videogame di guerra.
«Io non capisco come sia possibile. Mentre un’impresa privata è obbligata ad assumerti dopo un tot di tempo che lavori per lei, lo Stato no, fa quel che vuole. I privati hanno sanzioni se fanno cose del genere, lo Stato continua, invece, indisturbato, come se nulla fosse. Siamo solo nomi sulla lista del provveditorato o meglio degli uffici scolastici regionali o provinciali. E non è che, in tutto questo, non ci siano le bollette, le tasse, l’assicurazione dell’auto e quant’altro».
Maria insegna da quando era ragazza. Ama con tutta se stessa questo lavoro. Ci crede fortemente, ma sembra veramente stravolta da anni ed anni di precariato nella scuola primaria. Una volta nella grande citta, un’ altra in un piccolo centro, poi c’è l’istituto comprensivo, e poi ancora il plesso unico: una professione sballottata come se fosse la cosa più normale del mondo. L’unica cosa fissa e immutabile: il licenziamento a giugno e la disoccupazione nei mesi estivi. «Allo Stato non conviene assumerci. Gli costeremmo di più. Troppo di più. Dovrebbe pagarci per intero e quindi, ovviamente, non lo fa. Chi può obbligarlo? Nessuno!».
Ma Maria non è preoccupata solo di questo, lei è addolorata per i bambini e per la loro formazione che diventa ogni giorno più carente. «I ministri italiani che si sono succeduti all’Istruzione, non si rendono conto di cosa voglia dire per i nostri piccoli cambiare continuamente maestra e figura di riferimento. Loro si affezionano e soffrono. Non hanno nessuna percezione di continuità didattica e di cosa dovrebbe essere, veramente, il percorso scolastico. I programmi sono frammentati, spezzettati, disgregati dai metodi diversi d’insegnamento che ogni maestra usa. Siamo persone, non automi, è normale che sia così. Senza contare lo sforzo che ogni volta bisogna fare per legittimarsi agli occhi dei nostri stessi alunni e dei loro genitori».
C’e un misto di rabbia, impotenza, denuncia nelle parole di Maria: ad alimentarle è il dolore per una professione sempre in bilico e con domande inevase da tempo: Perché non ci si rende conto dei danni umani e formativi che si stanno continuando a fare? Perché tanta cecità di fronte ad una palese situazione di ingiustizia lavorativa e di scadente progetto culturale per il Paese?».
Il figlio la riporta alla realtà di mamma e di fronte a lui sembra che evaporino le ansie e il disagio per una speranza che non cessa di progettare un futuro migliore. «Loro sapranno fare meglio di noi. Perché i bambini sanno guardare al prossimo. Non pensano solo a se stessi. Sono certa che sapranno come costruire un mondo, che sarà migliore, per tutti. Hanno capacità e cultura, sta a noi non ucciderle durante il loro percorso formativo . Costruiranno un mondo incredibile!». E intanto si raccolgono le carte per il sussidio di disoccupazione e ci si prepara a nuove graduatorie per vedersi assegnare una cattedra chissà dove e chissà per chi.