Domande sul mondo dopo la pandemia

Quali scenari sono possibili dopo l’evento traumatico dell’epidemia globale da Covid-19? Intervista a Vittorio Emanuele Parsi, direttore dell’Alta scuola di economia e relazioni internazionali dell’Università Cattolica di Milano.
AP Photo/Vincent Thian

La grave crisi della pandemia può rappresentare l’occasione per rilanciare la democrazia «contro gli eccessi della finanza e il rischio di un nuovo autoritarismo». Ma non si può dire che “andrà tutto bene”. Anzi. Scenari completamente opposti e inquietanti possono condizionare il nostro futuro immediato. Ne ha scritto, nel libro “Vulnerabili”, Vittorio Emanuele Parsi, professore ordinario di Relazioni internazionali presso l’Università Cattolica di Milano. Abbiamo cercato di approfondire alcuni aspetti con questa intervista allo studioso che, tra l’altro, dirige, presso la Cattolica, l’Alta scuola di economia e relazioni internazionali

Nel suo testo afferma che il virus ha smascherato un mondo interconnesso ma privo di regole efficaci. Anche il politologo indiano, naturalizzato statunitense, Paragh Khanna ritiene che sia necessario governare i flussi della globalizzazione proteggendo le situazioni più fragili. Chi può farlo? I Paesi più deboli? Gli organismi internazionali?
Sono in linea con Khanna. La pandemia ha messo in evidenza la scarsa resilienza delle reti dell’interdipendenza a causa della scarsa considerazione della fragilità del fattore umano. Ma la solidità complessiva di un sistema è dettata proprio da quella dell’elemento più vulnerabile, che è anche quello insostituibile. Se vogliamo rendere il mondo più sicuro dobbiamo cominciare a ricostruire una nuova interdipendenza fondata sull’umano, affrontando più efficacemente quei fenomeni che derivano dal fatto che viviamo (e insieme possiamo morire) su un unico solo pianeta, su un unico solo vascello.

Molti si lamentano della crescita delle disuguaglianze. Eppure quando si va al voto, la maggioranza si schiera per conservare lo status quo o addirittura rafforzare i privilegi in essere. Come se ne esce?
È l’effetto di una battaglia culturale che si combatte da 50 anni per imporre un certo pensiero che, per esempio, considera come inevitabile l’accettazione dei vincoli di carattere economico. I grandi shock, le grandi crisi rompono questa narrazione egemonica, consentono di mostrare come, senza le parole che lo rivestono il re è nudo. Le crisi sono finestre di opportunità che permettono la dispersione del potere (a livello domestico e internazionale) e quindi la possibilità che si ricreino nuove e diverse concentrazioni di potere, raccolte sotto altre bandiere che si propongono il cambiamento strutturale (e in tal senso radicale) della situazione. È avvenuto con la Grande depressione del 1929 e la crisi dei successivi anni ’30, con la seconda guerra mondiale e, in direzione opposta, con la crisi degli anni ’70 (caratterizzata da stagflazione e disoccupazione). Sono stati tutti momenti di innesco di radicale cambiamento. Non tutte le crisi lo sono: quella finanziaria del 2008, arrivata in Europa nel 2010, non è stata colta e infatti ha devastato per un decennio le nostre economie.

Shakespeare nell’Enrico V evoca la fraternità (“Band of brothers”) come forza per combattere una battaglia decisiva contro un nemico più forte. Come possiamo riconsiderare, nelle sfide odierne, questo principio dimenticato della rivoluzione francese?
Nelle tenebre di questa terribile stagione abbiamo sperimentato che i nostri comportamenti individuali hanno rappresentato la differenza tra la vita e la morte quado la scienza, incolpevole, brancolava nel buio. Abbiamo riscoperto il valore del sacrificio, la vulnerabilità e l’immensa maestà di ogni singola vita umana. Abbiamo preso atto che solo agendo individualmente in maniera responsabile potevamo tutti insieme sperare di riconquistare la comune libertà. E solo quando assegniamo il massimo valore a una vita, che possiamo contemplare l’eventualità di sacrificarla per il bene comune, come avviene in guerra. Ed è solo nella certezza che pur di “non lasciare indietro nessuno” ogni soldato rischierà la propria vita che nasce la consapevolezza di essere una Band of Brothers, proprio davanti alla morte.

Nel suo lavoro parla di classi dirigenti mediamente impreparate. Considerando l’inondazione quotidiana di dati, informazioni, comunicazioni, proteste, ecc., come dovrebbe essere un discorso pubblico adeguato ai tempi del Covid19?
Dovrebbe essere, innanzitutto, un discorso sobrio. Cioè in grado di accompagnare l’empatia alla descrizione oggettiva della situazione, l’indicazione della meta e della rotta da seguire, esemplificata in un piano d’azione. Dovrebbe essere un discorso non paternalistico, ma che ci trattasse da adulti e che riconoscesse i nostri meriti in questa fase così difficile. Dovrebbe essere un discorso che non si nasconde dietro stilemi burocratici, gerghi parascientifici, ingenerando la sensazione di aver di fronte tatticismi e corto respiro. Né dovrebbe acquattarsi dietro la tecnica e la scienza: ieri l’economia, oggi la medicina, come se loro potessero darci le risposte. Dovremmo aver imparato che persino la pandemia – che potenzialmente colpisce tutti – in realtà ha un impatto asimmetrico in termini di vite umane, di costi, di segmenti sociali e di fasce professionali. Solo la politica può fare sintesi tra queste asimmetrie e indicare un destino comune e distribuire i costi in maniera diversa da quelli che “naturalmente” la pandemia produce. Per esempio di fronte al danno maggiore che gli esercizi della ristorazione o della cultura e tempo libero patiscono in confronto a tutti gli altri, prevedere maggiori sovvenzioni allo scopo di farli sopravvivere. Opporre una asimmetria diversa, “artificiale” e ingegneristica , e quindi umana, politica, a un asimmetria naturale, meccanica, casuale.

Nella prospettiva del cambio di paradigma propone un ri-bilanciamento fra capitale e lavoro. Come si può realizzarlo rimanendo in una prospettiva liberale? Siamo nel solco del pensiero di Dahrendorf che nel 1995 auspicava una “quadratura del cerchio” tra creazione di ricchezza, coesione sociale e libertà politica?
Sono almeno 30 anni, da Dhrendorf a Krugman, da Stiglitz a Reich, da Rodrik a Piquetty, su fino a Mazzucato che esiste un pensiero pronto a mostrare la via per un ripensamento della relazione tra capitale e lavoro. La crisi sanitaria, economica e politica sta colpendo gli Stati Uniti proprio nell’anno che porta alle elezioni presidenziali e politiche di novembre. Il malessere e il disgusto per una gestione cinica e incompetente della situazione può offrire una chance al candidato democratico di vincere le elezioni e trascinare il partito alla vittoria con una piattaforma necessariamente più liberal del recente passato, anche grazie alla lunga azione di politici come Bernie Senders. Negli anni ’70, in concomitanza di un’altra grande crisi prese il via quella rivoluzione neoliberale e conservatrice che è arrivata fino a noi. Ora è il momento di invertire la rotta

Nel cambio di rotta auspicato si può immaginare una riconsiderazione degli investimenti sull’arsenale nucleare e sulle armi in generale?
In un mondo che compisse questo passo non necessariamente sarebbero tutti e dall’inizio coinvolti o favorevoli. Le grandi potenze autoritarie, penso alla Cina e alla Russia, e a potenze minori ma armate fino ai denti, come tante in Medio Oriente e in Asia, e ovviamente alla situazione complessa dell’Africa. Per cui non ci sarebbe un’immediata corsa al disarmo. Ma a mano a mano che questo ordine si dimostrasse sempre più efficace, equo e inclusivo eserciterebbe una grande attrazione e disarmerebbe i cuori e le menti prima ancora delle mani delle popolazioni. E in tal senso rappresenterebbe anche una via verso la pace. Un pace equa, solidale, giusta.

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