Domande sui fatti di Voghera

La morte di Youns El Boussetai pone degli interrogativi sulla nostra società pervasa dal disagio e da un senso di insicurezza che ha portato ad incrementare la vendita “legale” di armi da fuoco nel 2020. Perché l'assessore alla sicurezza girava per il centro della sua città con una pistola carica?
Foto archivio Lapresse Festival della Scienza 2007 Nella foto:pistola con bossoli.

Di fronte alla tragedia verificatasi il 20 luglio scorso a Voghera, in cui un giovane di origine marocchina, Youns El Boussetai, è stato ucciso da un proiettile, partito dalla pistola regolarmente detenuta dall’assessore alla sicurezza di quella città, Massimo Adriatici,  occorre parlare sottovoce, per rispetto delle persone coinvolte e delle loro famiglie.

Né è possibile formulare giudizi affrettati, dovendo attendere l’esito delle indagini, che dovranno accertare se il colpo di pistola è partito accidentalmente ed in quali circostanze.

Qualche riflessione può tuttavia farsi su questioni più generali, che scaturiscono da episodi come questi.

Innanzi tutto, c’è da chiedersi se sia stato fatto tutto il possibile per curare i disturbi psichiatrici di cui soffriva la vittima, acuiti dall’abuso di alcool.

Secondo i giornali, veniva definito dalla gente del posto un disturbatore seriale, ma qualcuno si è chiesto quale disagio esistenziale lo aveva colpito e se era adeguatamente monitorato dai Servizi Psichiatrici di competenza?

Qualche settimana prima Youns El Boussetai era stato sottoposto ad un Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO), ma è sotto gli occhi di tutti come il ricovero coatto possa stemperare una situazione di emergenza senza impedire ricadute successive, perché l’infermità  mentale richiede tempi lunghi per la guarigione ed una grande alleanza terapeutica con i curanti.

Invece, c’è da pensare che in questo, come in molti altri casi, abbia prevalso lo stigma della “riprovazione sociale” di fronte alla malattia psichiatrica, che invece andrebbe considerata una patologia come tante altre, curabile o quantomeno gestibile con adeguati farmaci.Viene anche da pensare che il soggetto sia stato lasciato solo, insieme alla sua famiglia, e abbia cercato riparo dai suoi “mostri” nell’alcool, che invece ha peggiorato la situazione.

Una seconda riflessione va fatta con riferimento all’aumento, in questo ultimo anno delle persone che (sia pure legalmente) posseggono un’arma: infatti, le stime riportano che nell’anno della pandemia (il 2020) le licenze di porto d’armi sono cresciute del 10% rispetto al 2019.

Questo aumento è certamente correlato al clima di “paura” ed alla sfiducia nei controlli delle Forze dell’Ordine, ma non è giustificato da corrispondente aumento della criminalità predatoria o “da strada”.

Inoltre viene da chiedersi: perché l’assessore girava per il centro della sua città (non in periferia, non nel cosiddetto “Bronx”), in orario serale (non in piena notte) con una pistola carica?

Che bisogno c’era di muoversi armato quando la zona era adeguatamente sorvegliata dalle telecamere e una chiamata al numero d’emergenza avrebbe fatto prontamente arrivare una pattuglia?

Certamente, se l’Adriatici fosse stato disarmato, non sarebbe partito nessun colpo, neppure accidentalmente e non avrebbe colpito un uomo inerme, colpevole soltanto di essere “molesto”…

Questo e altri simili interrogativi dovrebbero scuotere le nostre coscienze e spronarci a rendere le nostre città più vivibili e meno condizionate dalla paura, che rischia di travolgere anche il rispetto verso chi è portatore di una malattia spesso invisibile all’esterno, ma devastante nell’anima.

L’autrice dell’articolo è Magistrato penale presso il Tribunale di Torino

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