Dom Angelo e il Marajò

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Ha aperto la strada ai Focolari nel Parà, il gesuita Angelo Maria Rivato, e ha portato un grande contributo all’inculturazione del vangelo e alla promozione umana degli indigeni di Ponta de Pedras, alla foce del Rio delle Amazzoni. Estesa quanto la Svizzera, è la più grande isola fluviale del mondo. È ritornato in Italia nell’aprile scorso, per dare l’ultimo saluto a Giovanni Paolo II ed incontrare Benedetto XVI. Conoscere il primo vescovo di una terra ai confini della storia, è un grande dono ed insieme una grande responsabilità. Tanto più che questo primo vescovo non ci è consegnato da preziose pergamene antiche, ma dall’oggi stesso degli avvenimenti che cadono sotto i nostri occhi, nella loro attualità. Ciò che colpisce di lui è il volto segnato dal sole e dal vento, che sembra contrastare maggiormente sul viso incorniciato da una barba candida. Il vescovo emerito di Ponta de Pedras, nel Marajò, non dimostra davvero le ottanta e più primavere che pure dice di avere. Dalla città di Belèm in Brasile, capitale del Parà e porta dell’Amazzonia, dove ora risiede, ha fatto ritorno ancora una volta a Roma. Con una puntata al paese natio, San Giovanni Ilarione nel Vicentino. Quando nacque, nell’ormai lontano 1924, in quel paese sulle colline della Val d’Alpone, nulla lasciava presagire che da quel figlio di contadini sarebbe venuto fuori un pescatore un po’ speciale, di quelli che pescano uomini, per intendersi. E che, fuori di metafora, avrebbe trascorso tanta parte della sua vita viaggiando su imbarcazioni di ogni genere. L’isola che lo aspettava è infatti ricoperta dalla lussureggiante foresta equatoriale ed intersecata da un’infinità di rii: grandi e piccoli, rigagnoli e cascate… Una vera e propria rete, resa viva e palpitante dalle grandi acque limacciose che vanno e vengono sotto l’influsso della marea, ritmando così la vita degli isolani, i marajioras. Ma questo lui non lo sapeva. Il piccolo si era trovato in compagnia di altri nove, tra fratellini e sorelline, nella casa di papà Leonardo e di mamma Elvira dove non mancava l’allegria, anche se non si nuotava certo nell’abbondanza. Il ragazzo cresceva svelto e sano, questo sì. Non trascurava la scuola. Ci andava, specie d’inverno, calzando le sgàlmare, scarpe con le suole di legno chiodato. E quando manifestò ai genitori il desiderio di farsi prete, l’assecondarono, anche se nel frattempo era scoppiata la guerra e tutto si era fatto più difficile. Venne ordinato nel 1951. Sono di quegli anni incontri decisivi per la maturazione delle sue scelte. Dom Angelo ne ricorda due in modo speciale: quello con don Giovanni Calabria, ora santo, e con Chiara Lubich. Di don Calabria – spiega – mi impressionò molto lo stile di vita apostolico. E l’incontro con la fondatrice dei Focolari mi spalancò i vasti orizzonti del dialogo e della fraternità universale. Fu lei ad incoraggiarmi nel mio desiderio di entrare nella Compagnia di Gesù. Il 17 febbraio 1960 Angelo, ormai religioso gesuita, si imbarca per il lontano Brasile. Allora occorrevano non meno di venti giorni di navigazione per raggiungerlo. Il porto di Genova era l’avamposto delle rotte transatlantiche. La lunga traversata lasciava tutto il tempo per familiarizzare con i cambiamenti di umore del mare, del vento e della luna… Quel che ci voleva, per il ragazzo delle sgàlmare. Quando giunge in Brasile, Angelo Rivato ha 36 anni. Ne avrebbe trascorso altri tre a studiare nelle più prestigiose università brasiliane dei gesuiti. Sarebbero stati anni preziosi per comprendere a fondo la natura della civiltà latinoamericana, e prepararsi in tal modo alla missione che lo attendeva. Finalmente, nel 1963, è pronto. Giunge a Belèm, la casa del pane. Qui trova un porto sicuro, la comunità dei gesuiti che lo accoglie con calore fraterno. Viene dall’Italia, dal centro della Chiesa cattolica, e porta con sé lo spirito dei tempi nuovi. Apre alle varie aggregazioni laicali. Invita i focolarini, che introduce nel Parà. Allo stesso tempo, sente fortemente il dolore dell’ingiustizia sociale. Una popolazione di indios analfabeti vive in condizioni primitive. Manca di tutto, di cibo e di acqua potabile, mentre viene privata delle fonti di sostentamento che le vengono dalla foresta, sempre più sfruttata da mani rapaci che non la rispettano. Dom Angelo sale sul barco, imbarcazione di giunchi intrecciati, più adatta alla navigazione in quelle acque. Attraversata la Baia Marajò, verrà catapultato, da prelato di Ponta de Pedras, nel suo Marajò. Un altro mondo, dove le poche abitazioni sono su palafitte, perché lì il Rio delle Amazzoni che si tuffa nell’Atlantico è presente otto mesi l’anno. Il padre si fa tutto a tutti. Da lui le mamme imparano a filtrare l’acqua prima di darla ai bambini, e i majioaras a lavorare; nascono così gruppi di lavoro, piccole cooperative. Sorgono negli anni asili, scuole, dispensari. Si costruiscono pozzi artesiani. Le case di legno soppiantano quelle di paglia. La farmacia diventa realtà accanto ai corsi di alfabetizzazione. Ma, soprattutto, con lui, spesso nel mirino dei potenti, nasce la consa- pevolezza di un popolo che ora guarda al futuro con fiducia e con speranza. Dom Angelo annuncia il vangelo usando, più che le parole, i gesti. Si serve del canto, della natura, della vita stessa del Marajò. E tutti accorrono ad ascoltare e vedere quell’uomo che parla di Dio con parole che anche loro capiscono. Due anni dopo, nel 1967, il nunzio apostolico Sebastiano Baggio lo consacra primo vescovo del Marajò: una diocesi di 120 mila abitanti, dislocati in sei piccoli centri abitati e in più di 300 minuscole comunità sparse lungo le rive dei fiumi che solcano l’isola in tutte le direzioni. Dom Angelo le conosce e le ha visitate tutte, ad una ad una. È passato un bel po’ di tempo da quell’11 febbraio 1963, quando il trentanovenne Angelo Rivato giunto a Belèm si presentò alla casa dei gesuiti della Capela de Lourdes. Nulla è cambiato da allora nella vita del religioso, che ha portato la voce dei majioaras anche fuori dal Brasile. Moltissime le iniziative nate grazie alla solidarietà di tanti: la Casa della fraternità, una casafamiglia per i bambini della foresta; il seminario minore, da cui sono usciti i primi indigeni che lui stesso ha avuto la gioia di consacrare sacerdoti; la rete dei catechisti, aiuti validi e preziosi. Tre anni fa il testimone è passato nelle mani del vicentino Alessio Saccardo, il giovane che lui stesso aveva ordinato prete nel 1970 e che lo aveva raggiunto nel Marajò. Dom Angelo è ritornato alla Capela di Belèm. Al suo confessionale c’è sempre la fila: sono i suoi majioras ancora bisognosi di un suo consiglio, di una sua parola. La navigazione continua. Nelle memorie di un pescatore si legge che uno dei momenti più belli ed emozionanti è quando, spenti i motori, le vele si tendono e si gonfiano, e la barca sbanda lievemente per riconoscere la nuova forza motrice, per poi lanciarsi in avanti. Ed è così che amiamo pensare i giorni di dom Angelo: la sua rete di rii azzurri è ora ben tesa nel verde smeraldo della sua isola che come una perla emerge dal delta del Rio delle Amazzoni.

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