Dolore, preghiera e perdono

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Vivo ad Alcalá de Henares, una città di 200 mila abitanti. Da qui sono partiti tre dei quattro treni delle bombe. Qui sono state introdotte le bombe, e la maggior parte delle vittime erano di questa città. Mio padre è guardia civile, specialista in esplosivi, e due giorni prima dell’attentato era stato inviato nei Paesi baschi per normali collaudi. A casa non ci piaceva l’idea, perché già una volta, quando ero molto piccolo, era scampato ad un attentato dell’Eta. Eppure, quel giovedì ci siamo resi conto che la provvidenza lo aveva inviato così lontano, perché ogni giorno prendeva proprio quel treno per andare al lavoro. Il giorno degli attentati sono rimasto attaccato alla tv. Avvertivo tanta rabbia e una gran voglia di piangere. Capivo molto bene come si erano sentiti i newyorkesi quando le Torri erano crollate. Due giorni con gli occhi umidi e terribili immagini nella testa. Due giorni di insonnia. La mia è diventata una città di morte, silenziosa, dove nemmeno gli uccelli cantavano. Venerdì coi compagni del liceo abbiamo partecipato alla manifestazione di mezzogiorno. Piazza Cervantes era piena di gente, e vi siamo rimasti per ben due ore reclamando pace e libertà. Poi siamo andati alla stazione di Atocha, per cinque minuti di silenzio commosso. All’arrivo di un treno, siamo scoppiati in applausi: il conduttore è sceso piangendo. Domenica ho saputo i primi nomi, nomi che avevano una faccia ed una storia. Nomi di morti e feriti: il papà di un mio amico, macchinista di un treno, ferito; la mamma di un compagno di classe, morta; due vecchi compagni di scuola, morti; un’amica della scuola di lingue, morta; un’altra, ferita; la sorella di un mio amico, non ce l’avrebbe fatta… Poi, in fondo al cuore, ho sentito che dovevo perdonare le persone che avevano causato tanto male, e anche pregare per loro, perché cambino mentalità e si rendano conto una volta per tutte che così non si va da nessuna parte. E pregare anche per noi, perché capiamo che non tutti i musulmani sono terroristi, così come non tutti i baschi sono terroristi. José Antonio Perálvarez, 17 anni La mattina dell’11 marzo nella mia parrocchia riceviamo una telefonata dalla diocesi madrilena: chiede ai sacerdoti di recarsi urgentemente al capannone n° 6 della Fiera di Madrid. Con un altro compagno agostiniano, dopo mezz’ora siamo sul posto. Due hostess cordialissime ci accompagnano nelle diverse sale dove i famigliari delle vittime del tremendo attentato aspettano notizie dei loro cari. Mentre camminiamo, percepiamo una commozione incontenibile in mezzo a rispetto, ordine, dedizione e servizio. Su tutti i volti si legge l’unico imperativo della solidarietà: medici, infermiere, sociologi, psicologi, polizia, lavoratori sociali, volontari, Croce Rossa… Incontro un giovane di diciotto anni, accompagnato da un amico. Non ha altri famigliari. Suo padre è morto otto anni fa e adesso vive con sua madre. Lei, che stamattina non lavorava, ne ha approfittato per andare a Madrid a fare delle compere. Nella stazione ferroviaria di Atocha ha trovato invece la morte. Mi dice: Adesso rimango solo. Non ho che qualche amico . Ed un prete – aggiungo – che ti vuol bene e prega per tua madre. Gli ho dato il mio indirizzo. L’ho rivisto. In una grande sala trovo una famiglia numerosa. Hanno perso una giovane di ventisei anni. Sua madre, piangendo al punto da non poter parlare, mi dice: Proprio oggi, l’unico giorno in cui non sono riuscita a salutare mia figlia nel partire da casa… Mio marito è completamente distrutto. Non crede ai preti. Veda lei se può fare qualcosa . Mi avvicino a lui per salutarlo. Gli do un forte abbraccio e lui risponde con un altro abbraccio, più forte ancora, e mi dice: Grazie, padre. Ed io: Sia sicuro che in questo abbraccio c’è l’amore di molti che vi vogliono bene. María Soledad di 42 anni era seduta in treno, accanto ad una delle valige cariche di esplosivi. L’hanno riconosciuta solo grazie alle impronte digitali. Suo figlio era stato battezzato nella mia parrocchia, e perciò lì suo marito vuole celebrare il funerale, una settimana dopo. Prima della celebrazione, parlo per 45 minuti col marito Raphaele, di religione buddhista. Andiamo in profondità con una serenità straordinaria. Mi dice: María Soledad era cristiana, molto credente; io sono buddhista, forse questo le dispiace. Gli dico a mia volta: Assolutamente no; l’amore ci unisce. Il suo sorriso è bellissimo. I primi minuti dell’omelia li dedico a parlare ai figli del paradiso. Dopo il funerale, mi viene incontro Raphaele: Grazie, padre Angel, mi hai fatto un gran bene: adesso so dove è María Soledad; parto con molta serenità.

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