Dolore e destino comune

Lo splendore (senza speranza?) delle vite umane

Due anni di epidemia da Covid hanno inciso pesantemente sulle nostre esistenze, su come viviamo in società, su come immaginiamo il futuro. Le morti solitarie in ospedale, lontano dagli affetti, insieme con la paura generalizzata, hanno aumentato tristezza, malinconia, depressione. Allo stesso tempo, però, i “mali comuni” come Covid e cambiamento climatico hanno reso evidente a tutti che la famiglia umana ha un solo destino, un destino che condivide con gli esseri viventi e con il pianeta Terra. Tra le recenti riflessioni su questo punto, vorrei segnalare tre libri, con punti di vista diversi.

Una condizione tragica
Il filosofo non credente Orlando Franceschelli, nel libro Nel tempo dei mali comuni (Donzelli 2021), propone una “pedagogia della sofferenza” per «combattere le cause di infelicità di ogni essere vivente». Di fronte all’umanità che «soffre immersa in una natura sorda e indifferente alle sue suppliche», di fronte all’egoismo dilagante e all’inospitalità verso i più deboli, di fronte al «saccheggio capitalistico delle risorse naturali», cosa rimane a chi non crede in una Provvidenza divina? Franceschelli propone una responsabilità laica, «un’etica della vulnerabilità o fragilità», un’inquietudine capace di «minimizzare le sofferenze degli esseri senzienti». In un mondo disincantato, che ci obbliga ad «apprendere anche attraverso il soffrire», possiamo agire per il bene comune senza cedere a fatalismi o speranze irragionevoli o prospettive elitarie. Il futuro che riguarda «la Terra, l’umanità e le generazioni più giovani» inizia con i nostri comportamenti, qui ed ora. Con un impegno individuale e collettivo, possiamo «valorizzare la nostra inclinazione al bene». Alla condizione tragica di una «sofferenza senza redenzione» possiamo rispondere con un «saggio, responsabile e solidale sì alla vita».

Il significato del dolore
Un altro filosofo, Byung-Chul Han, nel suo La società senza dolore (Einaudi 2021), si chiede perché vogliamo eliminare la sofferenza dalle nostre vite. Forse perché abbiamo paura del dolore, considerato “segno di debolezza”, per cui cerchiamo una vita «priva di angoli e spigoli, di conflitti e contraddizioni». Nella nostra società «la sofferenza viene privatizzata e psicologizzata»: ognuno si occupa solo di sé stesso, della propria psiche, della propria (improbabile) felicità, invece di affrontare le grandi questioni sociali. Col risultato che «invece della rivoluzione c’è la depressione», perché si anestetizza e si «rimuove la dimensione sociale del dolore». Ma se svuotiamo di significato la sofferenza, anche la nostra vita «viene spogliata di qualsiasi narrazione capace di generare senso», mentre «è proprio la persistente insensatezza della vita a far male». Per Byung-Chul senza dolore non amiamo né viviamo. Il dolore infatti è realtà, acuisce la percezione di sé, anima la fantasia, porta alla luce il Nuovo e il completamente Altro. «Solo la vita che è capace di provare dolore riesce a pensare». «Senza dolore non c’è Storia». «Il dolore è un dono». Sono frasi forti per un laico, che spiazzano. «Ho amato solo le persone per la cui vita sono stato in angoscia». È questa angoscia per gli altri «a insegnarmi chi sono». Una vita priva di dolore e piena di costante felicità «non è più una vita umana».

Il gusto delle cause perse
Anche Telmo Pievani, filosofo della scienza, nel suo Finitudine (Cortina 2020), parte come Franceschelli da una prospettiva atea, da una trascendenza laica basata sulla conoscenza scientifica. Per Pievani Dio non c’è, il mondo è assurdo e la vita non ha senso, ma non per questo dobbiamo arrenderci. Possiamo «sorridere dinanzi all’assurdità del nostro destino e sfidarla», riconoscenti per «la meravigliosa opportunità che abbiamo avuto di esistere, per un po’». Possiamo vivere, insoddisfatti e inquieti, sapendo che siamo mortali ma non siamo soli: siamo «esseri fragili tra creature fragili, in piedi su una Terra vagante che pure condivide questo destino». Il fatto di dover morire, fondamento della nostra comunità di destino, ci dona «la compassione per tutti gli altri che, come noi, sono mortali e in cerca di un senso». Si può insomma essere felici di «una felicità sempre minacciata», vivendo fino in fondo la nostra contraddizione, visto che «la tenace rivolta contro la propria condizione è la sola dignità dell’uomo». Se la vita non ha senso, a maggior ragione vale la pena viverla, «consapevoli della caducità di tutte le cose, ci attacchiamo alla vita fin dal primo vagito».

(AP Photo/Petr David Josek, file)
Solidarietà universale (AP Photo/Petr David Josek, file)

Due conclusioni
Tre libri “laici”, quasi un segno dei tempi, che evidenziano obiettivi e propositi simili a quelli di chi crede in Dio amore. Pur partendo da visioni del mondo diverse e senza tacere le differenze, forse credenti e non credenti potrebbero allora allearsi per alcuni obiettivi comuni: la “solidarietà tra disperati” (come la chiama Pievani), la “solidarietà universale” (come la chiama papa Francesco nella Laudato si’) e il sì alla vita. Di fronte alle sfide globali di oggi, è urgente portare avanti insieme iniziative e progetti, senza fermarsi alle prime difficoltà. Servirebbe però un investimento iniziale di rispetto e fiducia reciproca.

Una seconda considerazione è che forse ha ragione Dario Antiseri, nel suo Perché l’uomo continua a credere (Morcelliana 2020), quando spiega che «la domanda di senso nelle sue varie formulazioni è inestirpabile». La scienza dà risposte parziali, la filosofia pone domande senza dare risposte, quindi la risposta alla domanda di senso va trovata su un altro piano: «il “senso” è sempre religioso». La grande domanda, allora, è «invocazione di un senso non costruibile da mani umane».

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«Pensare al senso della vita significa pregare».
Ludwig Wittgenstein

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