Dolls

Takeshi Kitano, già premiato con il Leone d’oro nel ’97, ha presentato al recente festival di Venezia questa sua ultima opera, elaborata con uno stile decisamente diverso. Si è rivolto alla tradizione giapponese del bunraku, il suggestivo teatro delle bambole, che viene rappresentato con il concorso di due tipi di artisti: quelli che muovono le marionette e quelli che recitano con voce drammatica le storie di amori impossibili. Li vediamo all’inizio e alla fine e i personaggi del film sono le incarnazioni dei burattini. Indossano costumi sontuosi e si muovono sullo sfondo della natura, ripresa nei vivaci colori delle quattro stagioni. Tutto ciò insieme alla colonna sonora, elaborata ma equilibrata, alle inquadrature perfette e ai movimenti precisi degli attori, contribuisce a creare un’estetica raffinata, che si accorda perfettamente con il significato e con l’incanto che il film è capace di comunicare. Non è facile capire subito da che cosa derivi questo fascino sottile. Forse, nasce dai motivi, eterni come le favole, che il racconto contiene. La vita come un camminare senza posa di due giovani, legati fra loro da una lunga corda, espianti una colpa commessa per pressioni sociali, ma sostenuti dal ricordo di momenti di gioia, perduti per sempre. L’oggetto dell’amore come meta irraggiungibile: uno può vedere la propria ragazza, ma non parlarci, un altro parlarci, ma non vederla; e un altro ancora non può manifestarsi, perché impedito dall’esperienza mafiosa, che lo ha cambiato. Ci troviamo su strade bruciate, senza ritorno, e la morte appare la sorte meno dolorosa. Eppure il pessimismo non è totale. I personaggi sono mesti, ma hanno una dolcezza rassegnata. Come la ragazza svanita, che induce tenerezza e commuove. L’atmosfera solenne e sacrale, che li avvolge, ce li fa apparire idealizzazioni, che suggeriscono riflessioni sull’esistenza, l’amore, il dolore, la morte. Struggente l’ultima scena, in cui le marionette, che sono i due innamorati morti da poco, continuano a guardarsi e a parlarsi dolcemente, più di prima: quasi un accenno ad una più piena realizzazione del loro rapporto in un’altra vita e all’effetto catartico della sofferenza, anche in situazioni estreme. Regia di Takeshi Kitano.

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