Dolce principe, amico Amleto
Nel cuore della notte, fra spettrali chiarori di luna offuscati da minacciose nuvole scure, appare, sui merli dei torrioni del castello di Elsinore, un fantasma. Con voce d’oltretomba, il fantasma parla: confida ad Amleto di essere il re, suo padre. E gli affida una terribile missione: vendicarlo della sua morte, non avvenuta per cause accidentali come s’è voluto far credere, ma perché avvelenato dal suo stesso fratello; che ora, oltre ad usurpare il trono, ha preso in moglie la regina, sua sposa. Quindi lo spettro si dissolve nei meandri cupi della notte. Ad Amleto, giovane sensibile ed intelligente, rimane una missione intrisa di tutta l’ambiguità della visione notturna. Una visione che lo porterà a lacerare la propria giovane esistenza tra il credere e il non credere all’apparizione, tra il dubbio se sia meglio agire o dimenticare – essere o non essere, questo è il dilemma. Deve dar atto o no alla vendetta? Che pur gli pare inutile e insensata, persa come sarebbe nella grande girandola degli intrighi e passioni oscure che sembrano inghiottire tutta la corte danese. L’Amleto è di certo la più celebre tragedia di Shakespeare. Forse perché essa coglie così in profondità le tortuosità del male che a volte imprigionano un’anima nobile. Ma anche perché Amleto è così grande che in qualche brandello della sua anima ritroviamo qualcosa della nostra; e perché la piccola Danimarca, che imputridisce nei meschini giochi politici e negli interessi personali perseguiti senza scrupoli, sembra essere una raffigurazione, purtroppo realistica, del mondo ampio in cui viviamo. Laurence Olivier, il grande attore e regista inglese, disse che avrebbe potuto interpretare Amleto per un centinaio di anni e trovarvi ogni volta qualcosa di nuovo. Perché non c’è nella storia della letteratura un personaggio così ricco e complesso, allo stesso tempo così opaco e trasparente. Impossibile da afferrare. In quest’opera, l’immenso genio di Shakespere ha riversato tutta la potenza e l’esuberanza della sua ispirazione. Al tema dominante della vendetta ha accompagnato quelli non meno principali delle relazioni padre-figlio, figlio-madre, dell’amicizia. Ha unito il tema dell’amore a quello del potere corrotto e del potere che corrompe, della pazzia vera o simulata, dell’azione e della inanità, della gioventù e della vecchiaia. Fra le più profonde domande esistenziali ha inserito un’ampia divagazione sul significato e sulle potenzialità dell’arte teatrale. Insomma, in quei cinque atti ha dato tutto il meglio di sé. Shakespeare era un uomo di lettere e di spettacolo, che viveva del suo lavoro, delle opere che scriveva e che provvedeva a rappresentare. Era uno scrittore di teatro che, come pochi nella storia, ha saputo vibrare all’unisono col battito del polso del pubblico. Ne conosceva ogni accelerazione, ogni rallentamento, ogni anomalia. Aveva una così profonda conoscenza dell’umanità da saper quale corda del cuore toccare per divertire in una brillante commedia; e quali toni usare per farlo turbare e riflettere nei turbini della tragedia. A quell’epoca non vi erano i diritti d’autore e finché una compagnia possedeva il testo di un’opera teatrale se ne garantiva l’esclusiva. Per questo motivo Shakespeare non ebbe mai alcun interesse a pubblicare le sue opere drammatiche. Lui viveva degli introiti delle rappresentazioni. Le pubblicazioni vennero assai dopo. A volte ad opera di uno o più attori, spesso senza scrupoli, che ne riscrivevano le parti imparate a memoria. Per questo molte edizioni a stampa contengono inesattezze, aggiunte o omissioni. Un valore del tutto particolare acquista però un libretto intitolato: La tragica storia di Amleto principe di Danimarca di William Shakespeare. Quale è stata più volte rappresentata dai servitori di Sua Altezza nella città di Londra: come anche nelle due Università di Cambridge e Oxford, e altrove. Stampato a Londra per N.L. e John Trundell. 1603. Risale quindi a 400 anni fa l’edizione più antica di quella che può essere considerata la tragedia più celebre del mondo. Se questo anniversario assume uno valore squisito per il folto, ma anche esclusivo, pubblico degli esperti studiosi del drammaturgo inglese, rappresenta anche per noi l’occasione per soffermarci un po’ su quella grandissima opera. La tragedia di Shakaspeare, pur attingendo alle viscere del male e penetrando gli anfratti più oscuri dell’animo umano, non è scevra da una visione cristiana. Che, sebbene mai esplicita, ne costituisce il costante sottofondo. Nell’Amleto, ad esempio, c’è una luce che, alla fine, rischiara tenuemente, ma con forza, la fosca vicenda. Tutti sanno come sia andata, dopo l’apparizione dello spettro. Amleto, pur corroso dal dubbio – che per la troppa lungimiranza gli faceva vedere l’inutilità di un’azione di vendetta – rimarrà tutt’altro che inattivo. Egli scoprirà con un brillante stratagemma la verità sulla morte del padre; si fingerà pazzo; affronterà aspramente la madre rimproverandole la condotta leggera; sarà casualmente artefice della morte del cortigiano Polonio; sarà lui a consegnare freddamente al boia gli infingardi Rosencrantz e Guilderstern; sarà in qualche modo responsabile della pazzia e del suicidio di Ofelia; accetterà la sfida a duello del fratello di lei, Laerte, e precipiterà nel tranello finale in cui perderà la vita insieme alla regina sua madre, dopo aver ucciso il re usurpatore e, sebbene involontariamente, lo stesso Laerte. In una tragedia nella quale il mondo tutto sembra ammantarsi di tenebre; dove l’amore rimane spogliato della sua spiritualità, la donna del suo prestigio, lo stato della sua stabilità. È l’eruzione del Male: per via del quale il mondo sprofonda nell’assurdo. Ma in questa esplosione di pazzia una persona si salva: Orazio, l’amico fedele, l’anima pura. Che non cede alle passioni distruttive e che quindi non vi soccombe. Che non si fa intrappolare nei lacci degli intrighi. È fra l’altro l’unico, fin dall’inizio, a nutrire dubbi sull’apparizione dello spettro. Shakespeare ci consegna qui il valore altissimo dell’amicizia autentica pur tra due persone caratterialmente molto diverse – tanto equilibrato è Orazio quanto irrequieto Amleto – ma che sanno capirsi e apprezzarsi a fondo vicendevolmente. Amleto tiene Orazio caro come l’oro, invidia la sua equanimità e lo loda in uno stupendo canto: “Tu sei uno che, di tutto soffrendo, sei capace di non soffrir di nulla; sei un uomo che ha saputo ricever dalla sorte gli schiaffi e le carezze, con pari spirito di gradimento. E fortunati quelli in cui l’istinto è così ben commisto al raziocinio da non esser per la Fortuna un piffero ch’ella possa suonare a suo talento diteggiandolo come più le piace. Portatemi quell’uomo che non sia schiavo delle sue passioni e io me lo terrò stretto sul cuore, come faccio con te”. È a lui che, quando tutto è perduto, Amleto affida il compito di narrare la sua tragica storia, e d’insediare sul trono una persona valorosa. È lui il superstite della tragedia, quando le tende del proscenio si chiudono sul tanto sangue sparso. Orazio, simbolo della speranza e del bene che sempre può trionfare, anche se lievemente, anche se nel mezzo di tanto travaglio. È lui a sorreggere tra le braccia l’amico Amleto, ormai senza vita, e sussurragli: “Dolce principe, benevola ti sia l’eterna notte, e possa un volo d’angeli cantando accompagnarti all’ultimo riposo!”.