Doha, l’incredibile contrasto

Il Paese rampante del Golfo Persico vive quasi una fase schizofrenica della sua storia, tra grattacieli futuribili e risorgenza delle radici arabe
Qatar

Scrivo queste note alle sette di sera al suq Waqif di Doha. Fa un caldo afoso ed invadente, mentre nella via dei ristoranti sono in funzione centinaia di ventilatori, per dare un po’ di respiro alla gente. C’è il pienone, la gente è uscita solo da pochi minuti dopo una giornata trascorsa in locali climatizzati. All’una mi sono permesso di fare due passi, non più di dieci minuti, ma sono dovuto tornare al mio alloggio per non soccombere al calore. Inzuppato è sminuire lo stato in cui mi sono ritrovato. Il suq di Doha è situato nel luogo dove da secoli la popolazione locale ha svolto i suoi commerci, ma è tutto nuovo, o quasi, ricostruito ex novo alla maniera araba, quasi per un senso di colpevolezza che sta colpendo questo Paese all’avanguardia nella tecnologia (o piuttosto nel suo uso spinto, quasi spregiudicato), nell’architettura (ma i grandi nomi che cui progettano i grattacieli sono tutti stranieri) e nella finanza (i petrodollari hanno creato qui un fondo sovrano che ammonta ad alcune centinaia di miliardi).

Ora il Qatar s’è messo pure a far politica, sotto la guida del dinamicissimo emiro Hamad bin Khalifa Al Thani, entrando a gamba tesa in tutte le ultime guerre della regione (Iraq, Libia e ora Siria), a fianco ovviamente dell’Arabia Saudita e degli Stati Uniti, spesso facendo il lavoro sporco, cioè fungendo da tramite per occulti invii di armamenti a fazioni ambigue che Stati altrimenti blasonati (e taluni anche “democratici”) non potrebbero mai permettersi di assumere come alleate, nemmeno servendosi dei propri servizi segreti. Arma privilegiata di questa offensiva politica, ovviamente, è quella potenza di fuoco mediatica che è al Jazeera, la tivù voluta e finanziata dall’emiro in persona, che ha contribuito non poco a ridorare l’orgoglio di tanta parte della nazione araba, senza dispiacere ovviamente agli Stati Uniti.

In questo suq quasi tutte le donne sono velate col niqab, che nasconde quasi totalmente il volto, con i suoi peraltro elegantissimi drappi neri che le avvolgono dalla testa ai piedi. A malapena si riesce a incrociare qualche sguardo, che magari appare truccatissimo. Le musiche sono arabe, la chicha viene offerta in tutti i bar, non un solo maschio è vestito all’occidentale. Il gesticolare è pure arabo, l’ordine-disordinato dei negozi è arabo, come arabo è il salmodiare del muezzin, e il cibo e l’arte e i falchi da caccia e i cammelli per la foto ricordo. L’afa umida è araba, e così il tè alla menta. E l’uomo in bianco seguito a due passi da tre, quattro, cinque silhouette nere e una ribambella di mocciosi, loro sì, tutti vestiti all’occidentale: la tivù impone i suoi modelli in primo luogo ai giovanissimi, vittime prime del neoliberalismo arabo.
 
Sono appena tornato da un giro per la capitale del Qatar, in tassì ovviamente, storia di scattare qualche foto. Nel “vecchio” centro della città i palazzi hanno limitato la loro scalata al cielo, inframmezzati al Parlamento, al Museo dell’arte islamica e a quello nazionale, conferendo all’ambiente il recupero di quel qualcosa di arabo, di autenticamente locale, se così si può dire, che si voleva scalzare ma che è ritornato di forza. Ma, al di là della stupenda al Corniche di otto chilometri, il lungomare che abbraccia dolcemente l’intero tragitto della Doha Bay, tra il suggestivo vecchio porto, il Dhow Harbour, dove sono ormeggiate e vengono riparate le vecchie barche di legno, le dhow appunto, e la punta conosciuta come quella dell’hotel Sheraton, è cresciuto e sta ancora crescendo un ciuffo selvaggio ma armoniosissimo di grattacieli, uno più suggestivo dell’altro, più avveniristico, più avanzato come tecnologia, più ardito come prospettiva architettonica. E poi, più a Nord, sono stati strappati chilometri quadrati al mare, permettendo la creazione di alcuni quartieri – Qatar Village e The Pearl in testa – dove s’esprime il massimo del “consumismo alla Golfo Persico”, come a Dubai, Manama, Kuwait City, Ryad, Abu Dhabi.

Entro in un mall, il City Center Doha, una gigantesca incrostazione di boutique di lusso assoluto, dove il 98 per cento degli utenti è arabo e il 50 per cento saudita: come al solito gli uomini in bianco guidano le danze, seguiti dal codazzo delle mogli in nero assoluto e dai marmocchi griffati, dalle scarpe Tod’s al cappellino Ferrari. Entrano nei negozi, fanno tirar fuori il comprabile, poi si degnano di accattare qualcosa a caso, pagando con le carte di credito Gold o Platinum che appoggiano sulla cassa con ostentata noncuranza. Acquistano borse Vuitton, maglie Ferrogamo (che poi nascondono sotto le loro palandrane!), anelli Bulgari, tessuti pregiati Loro Piana, profumi Givenchy o Chanel, tutta roba europea, o meglio quel che resta dell’Europa. Per il momento, finché questi marchi ormai globalizzati non saranno altro che firme nei portafogli dei fondi sovrani arabi (o dell’Estremo Oriente). Perché il petrolio durerà ancora a lungo, ben più di quanto non si pensasse all’epoca della prima, grande crisi del petrolio (erano gli anni Settanta delle domeniche in bicicletta, un’era geologica fa).
 
Non sappiamo come finirà, né c’è un solo economista o un solo esperto di geopolitica con la palla di vetro che possa vaticinare una visione ultimativa. Certo è che il potere economico sta spostandosi verso lidi di cultura, tradizione e religione diverse da quelle dominanti nei nostri Paesi occidentali, spesso quegli stessi che hanno creato in epoca coloniale gli Stati che oggi stanno diventando i loro acquirenti. Il mondo continua a girare a modo suo. La democrazia attecchisce da queste parti in modo assai limitato, il concetto di libertà non sembra equivalente al nostro e così quello del rispetto dei diritti umani.

In questo contesto un certo delirio d’onnipotenza, straordinariamente lucido però, sembra accompagnare ogni gesto dell’emiro del Qatar, che pretende di diventare arbitro dell’intera questione araba, forte del suo petrolio, dei suoi fondi sovrani, dei suoi arsenali che crescono in misura esponenziale. Ma la bomba della contraddizione presente nella sua patria – voler essere più occidentali degli occidentali, ma conservando la propria cultura araba – l’emiro non potrà mai considerarla insignificante. Altrimenti rischierà di esplodergli tra le mani.
 

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