Divide et impera?
La tradizione attribuisce a Filippo II di Macedonia, padre di Alessandro Magno, il detto “divide et impera”, cioè “dividi e comanda”, uno dei principi politici più usati nella storia dell’umanità. Una tale strategia venne usato da greci e romani, persiani e mongoli, cioè in tutto il mondo: un despota, un re, un tiranno o un presidente eletto usano della propria influenza per dividere gli avversari e metterli gli uni contro gli altri e poter così mantenere il potere saldamente nelle proprie mani. Nulla di nuovo.
Nella politica internazionale di questi ultimi decenni questa strategia viene usata in modo diverso, non da un monarca ma dalla comunità internazionale che divide per mantenere una certa convivenza pacifica, per evitare guerre e guerriglie, terrorismi e migrazioni forzate. Per mantenere il potere delle grandi potenze, mondiali o regionali, senza troppi scossoni. Il caso “da manuale” è quello balcanico, quello cioè che ha posto fine alla ultima guerra terminata nel novembre 1995 con l’accordo di Dayton (la divisione della Bosnia Erzegovina in due entità, con la sequela dell’indipendenza kosovara). Anche il conflitto israelo-palestinese ha ancora come una soluzione politica prospettata quello del “divide et impera”, anche se non si riesce veramente a completare il progetto. Anche nella Georgia caucasica, per fare un altro esempio, le enclave russe di Abkhazia e di Ossezia del Sud hanno acquisito una indipendenza di fatto che ha pacificato la regione, almeno per il momento.
Ora si sente parlare di divisione della Siria in tre parti, secondo un progetto che sarebbe partito da Mosca ma che troverebbe non pochi fan: l’Occidente ad Assad e ai suoi alleati russi e iraniani, agli alawiti e agli sciiti (e ai cristiani), con capitale a Damasco; il Centro ai sunniti di varia estrazione, con capitale a Raqqa; il Nord ai curdi, in collegamento ovviamente con il Kurdistan iracheno.
Che dire? Meglio la spartizione che la morte di tanti innocenti e le migrazioni forzate per sfuggire alla violenza? Certamente una soluzione politica e diplomatica che ponga fine ad un conflitto che ha fatto finora più di 300 mila morti sarebbe benedetta. Ma si continuerebbe nella strategia di eliminare quei luoghi, quegli incroci di storia e civiltà in cui persiste e resiste una convivenza tra diversi: tra culture, etnie, tribù, religioni, fazioni di estrazione non omogenea. E questo non è un bene. Tutt’altro. Preserviamo questi santuari di convivenza come il Libano, la Macedonia, la Tanzania, l’Ucraina, la stessa Siria… Sono segni di un’umanità che non cessa di cercare la fraternità originaria di tutte le Nazioni.