Diversamente madri
C’è un istinto primordiale che ci rende umani, un istinto che ci accomuna agli animali, persino alle piante. È quel sentimento che ci spinge a prenderci cura di un altro essere umano, di farci carico della sua fragilità, delle sue paure, dei suoi sogni. Un sentimento che vorrei chiamare maternità, senza per questo caricarlo di alcun connotato di genere. Può essere attributo di donne e di uomini, di piccole comunità come di intere società. Ha poco a che fare con la fortuna di avere una famiglia propria, un compagno con cui condividere una vita. Certamente trascende e completa quel naturale desiderio di avere figli propri.
Negli anni ho imparato che la maternità non ha a che fare solo con la biologia, con l’atto del mettere al mondo un figlio. È una tensione e un sentire dell’anima.
Per questo dobbiamo cominciare a ragionare di maternità fuori dai soliti schemi e dalle solite convenzioni (mamma-papà-figli).
La sterilità del nostro Paese – da tanti additata come un problema – non può essere cercata solo nelle culle vuote, nelle coppie senza un progetto, nelle maternità ritardate ad oltranza, nella ricerca del figlio ad ogni costo. La sterilità è un’aridità dell’animo che può entrare anche nelle nostre famiglie.
Il nostro Paese è oggi investito da un fenomeno che qui da noi non ha precedenti ma che è comune a tanti Paesi ricchi: l’arrivo di bambini e ragazzi che emigrano in solitudine, senza genitori né parenti.
Ne sono arrivati più di 16 mila solo nel 2016. Arrivano dall’Egitto, dal Ghambia, dalla Nigeria, dall’Eritrea.
Hanno compiuto un viaggio lungo e tormentato, talvolta sono sopravvissuti a pericoli, carcere, deserto, fame, violenze. Spesso hanno lasciato mamme e sorelle e fratelli e compagni di scuola. Sanno usare Internet, si orientano con facilità, sono consapevoli di cosa hanno lasciato, non sapevano cosa avrebbero trovato. Di sera hanno nostalgia di casa, del loro cibo, degli amici. Quando hanno gli incubi, sono soli, nessuno conosce le loro angosce più profonde. Hanno l’energia e la voglia di imparare dei ragazzi.
Non dovremmo più riuscire a dormire tranquilli nelle nostre case, nei nostri conventi, nelle nostre chiese. Hanno bisogno di casa, di protezione, di un telefono per chiamare la mamma, di letti dove dormire, di madri e padri temporanei, disposti a condividere qualcosa con loro. Non possiamo delegare la loro crescita alle istituzioni, alle cooperative, ai servizi sociali, pur necessari. C’è bisogno di un movimento collettivo di madri e di padri disposti a lasciarsi scomodare, pronti ad aggiungere un letto in casa, almeno per dei periodi, un piatto a cena, una bicicletta in partenza per una vacanza. Sono bambini, sono ragazzi, sono soli. Non ci diamo pace.