Disunità nazionale
Anche chi non è un gran patito della politica in versione televisiva, dei talk show dove ogni giorno diminuiscono le parole usate dai partecipanti, in questi giorni ha dovuto cedere: davanti allo schermo ci siamo andati in tanti, il bene comune ci interessa. Ma lo spettacolo non è stato dei migliori. Se la televisione popolare, si dice, ha un vocabolario che normalmente fluttua tra le quattro e le cinquecento parole, in questi giorni sembra che tale patrimonio lessicale stia per subire un altro duro colpo, scendendo a due o trecento parole. Chissà cosa avrebbe detto il linguista Luca Serianni che ci ha appena lasciato per uno sciagurato incidente…
Stucchevole, per una qualsiasi persona dotata di senso critico, è stato lo spettacolo dei voltafaccia, delle miserie, delle accuse, delle parolacce, degli addii, delle chiamate in battaglia, delle inconfessate voglie di non perdere il seggio a Montecitorio o a Palazzo Madama.
Intendiamoci, non tutti hanno mostrato i lati peggiori della tavolozza delle reazioni possibili, tutt’altro. C’è chi ha saputo dare risposte plausibili, condivisibili e razionali, usando il congiuntivo o il condizionale correttamente; c’è stato pure chi s’è azzardato addirittura a dare del “legittimo” a posizioni opposte alla propria, considerando che poi, alla fine, gran parte dei contendenti saranno di nuovo seduti fianco a fianco nella stessa aula del Parlamento.
Gli uffici stampa dei partiti, o piuttosto ormai gli esperti di social marketing, hanno dato fondo a tutte le possibili combinazioni delle poche centinaia di parole a cui s’è ridotta la politica, ovviamente considerando che un aggettivo posto a corredo del complemento oggetto può stravolgere il messaggio o dargli un’efficacia maggiore. Ieri s’è udita questa frase: «Affermiamo la preconcetta contrarietà del nostro partito alla crisi di governo», e subito dopo un’altra: «Affermiamo la pregressa contrarietà del nostro partito alla crisi di governo», che volevano essere opposte nel senso ma che nei fatti erano indistinguibili. Lo sforzo di uscire dalle 300 parole, ma senza conoscerne altre, ha creato il cortocircuito: “preconcetta” e “pregressa” sono aggettivi troppo snob, perbacco! Ma questi sono sofismi…
E il pubblico cosa ne pensa? Al bar, stamani, non si parlava d’altro. Critiche assolute ai politici – ma ci si rende conto della distanza siderale che ormai s’è creata tra professionisti della politica e gente comune? −, ma paradossalmente usando lo stesso vocabolario imparato in tv dai politici che vengono criticati. Tale e quale.
Il fatto è che il degrado culturale non è prerogativa di Montecitorio o di Palazzo Madama, ma c’è nelle nostre spiagge, nelle nostre discoteche, nelle piazze dei concerti, nei treni, nei bar. Il degrado credo che vada fatto risalire al 6 agosto 1990, quando in piena estate, quindi coi deputati vogliosi solo di mare e monti, venne approvata la legge Mammì (voluta da Craxi e Andreotti, con Berlusconi sullo sfondo) sulle telecomunicazioni pubbliche, legge che ha stravolto il panorama televisivo aprendo la strada all’incompetenza e alla politica acchiappatutto. Senza paletti di sicurezza.
In Francia, in Inghilterra, in Germania la legge ha protetto l’indipendenza del sistema mediatico dalla politica, col merito di evitare il degrado culturale (e lessicale). In Irlanda se un politico cerca di influenzare la scaletta di un telegiornale finisce dietro le sbarre, ricordiamolo. Qui da noi, purtroppo, siamo stati vittime dell’aver consegnato il sistema mediatico tradizionale alle forze politiche, limitando a dismisura quella distinzione tra i poteri che ormai (anzi da 40 anni almeno) non deve riguardare solo i tre settori classici – esecutivo, legislativo e giudiziario – ma anche quello mediatico. La politica ridotta ad avanspettacolo è penosa: al punto che fanno vera compassione quei politici con la testa sulle spalle che sono stati travolti dal fango e dalla pochezza lessicale di tanti, troppi colleghi politici.
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