Il disturbo alimentare visto da vicino
Ormai alle giornate nazionali di più o meno qualunque cosa, verrebbe da dire, ci abbiamo tristemente fatto il callo: manca soltanto quella dello gnocco fritto, e ce le abbiamo tutte. Al di là dell’ironia, non dobbiamo però far calare l’attenzione almeno su quelle che riguardano questioni serie che ahinoi durano tutto l’anno: come la “Giornata nazionale del fiocchetto lilla” che si tiene oggi, volta a sensibilizzare sui disturbi del comportamento alimentare (dca). Un’etichetta sotto cui rientrano diverse patologie – dall’anoressia, alla bulimia, al binge eating – e comportamenti più o meno gravi, che nella loro estrema diversità hanno in comune un rapporto difficile con il cibo – che sia il rifiuto totale o selettivo, l’abbuffata incontrollata, o l’ossessione per certi stili alimentari. A volere questa giornata è stato Stefano Tavilla – che dopo la morte della figlia che soffriva di bulimia ha fondato l’associazione Minutrodivita -, e che alla sua sesta edizione vede numerose iniziative su tutto il territorio nazionale.
Difficile dire con esattezza quante siano le persone che ne soffrono in Italia: secondo le stime del Ministero della Salute sarebbero circa 3 milioni di cui il 96 per cento donne, ma si tratta appunto di stime, in quanto questi disturbi rimangono facilmente non diagnosticati soprattutto nei casi meno gravi – in cui è facile derubricare come abitudine a mangiare poco o viceversa ad onorare la tavola un comportamento che invece nasconde dell’altro.
Inoltre è sempre più ampia la fascia d’età – con esordio già attorno agli 8-10 anni – e la percentuale di uomini che ne soffre, tanto che altre stime arrivano a più che raddoppiare la percentuale.
La scarsa informazione peraltro non aiuta: sempre secondo i dati del Ministero, il 69 per cento degli italiani dichiara di non conoscere i rischi di questi disturbi e di non sapere come affrontarli. Tanto più, quindi, la Giornata nazionale del fiocchetto lilla si pone come occasione importante per “fare cultura” in questo senso.
Nei due anni trascorsi dall’uscita di “Fame d’amore”, il libro che racconta la mia esperienza con i dca, ho avuto la fortuna e il piacere di fare diverse presentazioni, girare l’Italia, ed incontrare molte persone sia direttamente toccate – ragazze e loro familiari – che non, ma comunque desiderose di saperne di più. Incontri che mi hanno indubbiamente arricchita soprattutto quando si trattava di confrontarmi con i genitori di queste ragazze, spesso disorientati per quanto determinati a combattere questa battaglia. E la domanda che più spesso ho sentito riecheggiare è “che cosa faccio?”, “come mi comporto?”, quasi nella speranza che io potessi dar loro la soluzione per risolvere i propri disturbi o per sostenere un’amica o familiare. Va da sé che né io né nessun altro disponiamo di ricette precostituite, se non altro perché ogni caso di dca è unico come unica è la persona che ne è coinvolta; però, lasciando ai professionisti considerazioni più tecniche, alcune linee guida sulla base della mia esperienza le posso avanzare.
Uso spesso dire che a chi soffre di dca basta un’occhiata per cogliere lo stesso disagio in qualcun altro: un certo sguardo dato al cibo in tavola, certe considerazioni su cosa e quanto si è (o non si è) mangiato, il preferire mangiare da soli, una volontà di fare sport che va al di là del giusto piacere dell’attività fisica.
Tutti segnali a cui possiamo imparare a fare attenzione, non perché identifichino automaticamente il disturbo, ma se non altro per non abbassare la guardia. Se poi si ha il sospetto, commenti del tipo «Vedo che hai mangiato di gusto» in quella magari unica volta in tutta la settimana che la persona si è concessa una buona porzione, sono da evitare nella maniera più assoluta; così come sono da evitare forzature a tavola, preferendo piuttosto accompagnare la persona nella scelta di che cosa e quanto mangiare – purché qualcosa si scelga – ed eventualmente nella preparazione in cucina, così da far “prendere conoscenza” con ciò che si andrà a mangiare. E, in generale, far passare lo stare a tavola come un momento di festa e di piacere da accompagnare con del buon cibo, non come quello in cui bisogna volenti o nolenti ingurgitare qualcosa.
Più di tutto, però, mi sento di invitare alla sincerità, sia chi soffre di dca che chi a queste persone sta vicino. Perché sentirsi liberi di dire «Senti, l’invito a cena in quel tal ristorante mi mette paura, ti va se magari andiamo da un’altra parte dove so di essere più a mio agio?» oppure «Adesso proprio non riesco a mangiare, ti va di fare prima due passi e poi vediamo?», è fondamentale. Se la Giornata del fiocchetto lilla servirà a sensibilizzare a sufficienza da sentirsi liberi di parlare senza essere giudicati, avrà già raggiunto una parte significativa dei suoi obiettivi.