Discese da brivido
Non sono poche le persone che apprezzano la montagna e si cimentano su pareti attrezzate. I più esperti raggiungono le vette scalando le vie più impegnative, sia di roccia che di ghiaccio. Fra questi, però, spicca un’ élite di persone che scalano le vette estreme del pianeta portandosi nello zaino lo snowboard, perché la loro discesa non la effettueranno lungo la via di salita, bensì lanciandosi lungo i pendii più ripidi delle pareti. Sono itinerari così severi che incutono paura anche al più esperto degli alpinisti. Chiunque, vedendo le fotografie o i filmati di queste discese, non può non provare un brivido. La vita di questi snowboarders è legata soltanto all’abilità che hanno nel dirigere la tavola; non esistono altri mezzi per rendere sicura la discesa. Ho conosciuto le imprese di uno fra i pionieri dello snowboard in altissima quota, Emilio Previtali, e finalmente ho avuto l’occasione d’incontrarlo. Una sera di dicembre mi trovo seduto con lui ad un tavolo di una ben fornita libreria-enoteca di Roma, la Peakbook, dove presenterà il libro La traccia dell’angelo del suo grande amico snowboarder Marco Siffredi, scomparso nel 2002. Sorseggiando un buon bicchiere di Teroldego e scambiandoci qualche frase prima di iniziare l’intervista. Mentre l’osservo, penso che ho davanti un uomo dall’apparenza comune, ma che dentro ha un qualcosa che pochi posseggono, un istinto che lo spinge ha fare nella vita qualcosa di straordinario, di estremo: per la maggior parte delle persone una vera pazzia. Con curiosità e interesse, mi appresto ad entrare nel suo mondo per scoprire questa sua grande passione. Emilio, cosa ti spinge ad affrontare imprese così estreme; e quali sono le sensazioni che provi quando sei immerso in questi ambienti? Mi sento attratto dalla montagna, dal manto maestoso e severo con cui si avvolge. Dall’idea di poter esplorare nuove vie di discesa lungo le sue pareti. Ogni linea discendente può significare gioia e successo, ma anche pericolo e paura. I movimenti devono essere calcolati con rapidità, bisogna sentire la montagna tanto da prevederne l’andamento; dossi o curve, se affrontati con superficialità, possono tradursi persino nella morte, non esiste margine di errore. Devi essere anche un po’ fortunato al momento in cui ti appresti ad affrontare una discesa del genere. Trovarti lì al momento giusto, magari con le condizioni meteo e della neve buone e in un buono stato di forma: tutte cose queste che succedono raramente. Per fare un esempio, è come prendere un’onda: devi capire quando è il momento per agganciarla, salirci sopra e lasciarti andare e quando invece è il momento di lasciarla. In questo sport il rischio della vita è molto alto. Ne vale la pena? La vita è senza dubbio un dono prezioso ed è chiaro che devi usarla bene. Ti rendi conto di come puoi giocartela in un attimo, non puoi prenderla con leggerezza e pensare di disporne sempre come vuoi. Per me è una scelta di vita come tante altre. Viverla e rischiarla in questa professione mi appaga, mi fa sentire vivo e dà un senso a tutto ciò che faccio. Quali sono state le tue soddisfazioni più grandi? Quando sto per realizzare il mio sogno, mi ritrovo dentro uno stato di concentrazione e lucidità che in nessun altra situazione ho mai provato. Ti senti parte viva con l’ambiente, ne fai parte e cerchi di muoverti cercando di percepire ogni suo mutamento. Dopo ogni impresa, col tempo, queste emozioni ti ritornano fuori lentamente. Ti ricordi di quei momenti dove eri consapevole del valore della vita e impari così a gestirla, a dosarla, ad affrontarla con decisione e volontà, soprattutto nei momenti più duri, quando ti sembra che non sia più tua e hai invece bisogno di riprenderla in mano. I tuoi prossimi obiettivi? Vorrei tornare allo Shisha Pangma, dove sono stato anche l’anno scorso, e riuscire a fare una discesa che ho visto lungo una parete di questa montagna. Essa si trova all’interno del Couloir Chamoux, è una via leggendaria, percorsa da Chamoux nel 1991. Cerco in ogni nuova avventura di trovare nuovi stimoli e interessi, non mi interessa tanto di compiere delle discese sulle grandi montagne ma piuttosto discendere dei grandi itinerari anche se si trovano su montagne meno importanti . Come cerchi di trasmettere la tua passione ed esperienza ai tuoi allievi? Gran parte del mio lavoro è insegnare ai corsi di formazione, a coloro cioè che saranno futuri insegnanti. Cerco di fare leva sulla passione, quello che sempre mi ha motivato in questo sport. Desidero perciò il più possibile comunicare questo, far venir fuori anche da loro le motivazioni per le quali hanno scelto questo sport. Far sì che possano a loro volta trasmetterle ad altri. Non è importante che uno diventi bravo o meno, l’importante è che ci metta tutto sé stesso; il resto viene da sé. Parlami di Marco Siffredi, questo grande snowboarder scomparso all’età di 23 anni, cercando di scendere lungo il Couloir Hornbein sull’Everest. Cosa ha rappresentato, quali erano le sue qualità, cosa ha lasciato? Secondo il mio parere lui ha spostato in avanti il livello dello sci estremo portandolo ad una distanza così grande che difficilmente nei prossimi 10-15 anni verrà capito.Nessuno raccoglierà la sua eredità. Era uno che sognava le cose e poi cercava di farle per davvero. Quando guardava la parete come la nord dell’Everest, non sognava soltanto di discenderla, ma cercava di far diventare il suo sogno realtà. Tu immagina quale motivazione debba avere uno che ha appena sceso la parete nord dell’Everest dal Couloir Norton, che non è una via banale, è una via su cui Reinhold Massner ha scritto un pezzo di storia con la prima salita in solitaria senza ossigeno. In quello stesso momento Marco desiderava fare subito un’altra discesa ancora più difficile come il Couloir Hornbein. Il messaggio che ci ha lasciato non è tanto tecnico sul come affrontare una grande pendenza su una parete, ma un messaggio di crescita, di coraggio, di motivazioni, tutte quelle cose che fondamentalmente appartengono anche all’alpinismo . La gente come te, come è vista dai giovani e cosa diresti loro? Le persone come me sono viste in modo strano, per certi aspetti ho la sensazione che alcuni mi sopravvalutino. Ci sono molti snowboarders che hanno un livello tecnico altissimo ma si limitano soltanto a sfruttarlo in pista o sullo snowpark. Con altri invece è molto entusiasmante il confronto, perché mi rendo conto che è la stessa passione che li spinge a svolgere queste attività. Quando mi confronto con gente così, che cerca di spingere il proprio limite e la propria creatività magari in discipline diverse dalla mia tipo il freestyler, gli interessi e le motivazioni per continuare crescono. Ai giovani che si apprestano a fare questo sport direi di farlo con gioia ed entusiasmo. È uno dei tanti modi per esplorare la montagna. Nella mia vita sportiva sono passato dall’arrampicata sportiva alle vie in alta quota di grandi montagne e molte altre discipline, ma con ciò non mi sento di essere un mezzo atleta di tante specialità, ma un atleta tutto intero. Il vero atleta è quello che sa adattarsi alle situazioni e ne sa tirare fuori il meglio di sé. EMILIO PREVITALI è nato nel 1967 a Bergamo. Ha al suo attivo due spedizioni al Cho Oyu (Himalaya, quinta vetta della Terra, 8202 metri, 1997 e 2002) con una nuova linea di discesa lungo la Cresta dei Polacchi e la prima discesa integrale e solitaria dalla vetta del Pik Lenin (Pamir, 7134 metri, 2000) attraverso la parete nord. Istruttore nazionale e maestro di snowboard, è proclamato miglior snowboarder/ freerider italiano dalla rivista On Board. È 14 volte Ironman finisher ed ha partecipato come concorrente ad altre importanti manifestazioni multisportive internazionali come il Camel Trophy ’91 Tanzania-Burundi (6° overall) e l’International Marathon Bike del Sahara ’93 (800 chilometri di mtb in autosufficienza da Tamanrasset a Djanet, terzo classificato). Nonostante tutto c’è chi giura che scendere con lo snowboard non sia l’unica cosa che gli riesce bene: Emilio è infatti anche un eclettico comunicatore. Fondatore e direttore di FREE.rider, l’unica rivista italiana dedicata allo snowboard e al freeride. Il freerider è uno sport svincolato dal concetto di competizione ed è soprattutto uno stile di vita per chi desidera vedere il mondo da prospettive impensabili. La sua filosofia è non pensare in termini di successo o fallimento di una spedizione. Punto di arrivo è l’esperienza in sé, con le sue difficoltà ed emozioni. Nella visione della montagna di Previtali, infatti, non prevale la conquista della vetta, ma la ricerca di strade per la discesa.