Il diritto dei bambini alla verità
Tempo fa sono stata contattata da un uomo che stava perdendo la moglie dopo una lunga malattia. La sua richiesta principale era come comunicare alla figlia di otto anni che la mamma sarebbe morta. Voleva, inoltre, capire se fosse il caso o meno di portarla al funerale, se farle vedere il corpo privo di vita della mamma nella camera ardente e così via. Molti parenti gli sconsigliavano di farlo, altri lo incoraggiavano. Mesi successivi mi sono ritrovata, invece, con un’altra coppia di genitori il cui figlio aveva da poco ricevuto una brutta diagnosi. Anche sempre gli stessi dubbi: cosa dire? come dirlo? dire qualcosa o tacere? e così via.
Davanti a situazioni dolorose o che pensiamo possano avere un impatto emotivo sui figli (più o meno grandi che siano), i genitori si trovano spesso spaesati. Lo spaesamento è comprensibile. Viviamo in una società in cui temi come la morte, la malattia, la sofferenza umana sono qualcosa a cui è meglio non pensare, qualcosa da cui fuggire. Un giorno una paziente mi ha detto «dottoressa ma è quasi Natale, non posso dire adesso a mio figlio della morte della nonna». Affermazione che mi ha fatto molto riflettere: c’è un tempo giusto per condividere quanto di doloroso accade? O piuttosto spesso siamo quasi tentati dal non dire nulla se proprio non è indispensabile?
Il tentativo è senz’altro fatto in buona fede. Si cerca di proteggere i propri figli da informazioni che possono turbare e, allo stesso tempo, si cerca di proteggere sé stessi dalle domande e dalle riflessioni che inevitabilmente il bambino potrebbe porci. Domande che spesso non hanno una risposta facile.
Ci sono però vari aspetti da considerare. Il primo, a mio avviso forse il più rilevante, è che il bambino è un essere umano, e come tale già dai primissimi anni va rispettato e gli va data la possibilità di vivere quello che gli accade. La verità è un diritto di ciascuno di noi.
Va ovviamente considerata l’età del bambino e la capacità che ha di comprendere. Ma non bisogna mai mentire od omettere. Maurizio Andolfi, neuropsichiatra infantile di fama internazionale, nel corso della sua carriera ha sempre affermato che «qualsiasi verità detta ad un bambino è migliore di una menzogna».
Le cose si possono semplificare, si possono dare spiegazioni rassicuranti, informare con l’obiettivo di creare un clima che permetta di dialogare su quanto stiamo condividendo, ma non si deve mai mentire. Per fare questo è necessario che l’adulto non sia spaventato. I bambini colgono benissimo le nostre paure e comprendono quando è il caso di parlare e chiedere e quando no, perché l’adulto che hanno di fronte non reggerebbe il peso di quel dialogo.
Pensando di proteggere i bambini dalle notizie dolorose non li si protegge dal dolore. Anzi. Non ricevendo una comunicazione sincera, che con poche parole semplici e chiare spieghi quello che accade, all’esperienza dolorosa si aggiungono interrogativi che non trovano risposta, dubbi non espressi fino alla strutturazione di idee sbagliate che colpevolizzano e minacciano più di quanto avrebbe fatto una verità seppur difficile da accettare.
Ricordo sempre una paziente cresciuta con la segreta convizione che la madre si fosse uccisa per causa sua. Oppure un altro ragazzo che era certo di avere qualcosa che non andasse, era certo che stesse per succedere qualcosa di doloroso a sé o ai suoi cari, solo perché per anni la madre aveva avuto una malattia e nessuno gli aveva mai detto cosa stesse succedendo.
La vita è questa, può essere molto bella ma a volte anche molto dura e dolorosa. Proteggere dalla sofferenza è impossibile. Si può però, come adulti, fornire strumenti e sostegno per affrontarla. Prima o poi i figli saranno costretti a confrontarsi in prima linea con quanto accade, ed è lì che saranno di immenso aiuto le esperienze fatte in passato ed il modo in cui sono state elaborate e vissute.
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