Il diritto all’obiezione di coscienza
Scienza e tecnologia, spesso sinonimo di nuove sfide e frontiere, sembrano aumentare la distanza tra coscienza e diritto, tra interiorità della persona ed esteriorità della norma. Coscienza e legge non sembrano più alleate sulla base di valori condivisi, ma contrapposte, specie là dove il diritto all’autodeterminazione si traduce in comportamenti consentiti dalla legge, ma che la coscienza del singolo percepisce come dannosi per altri diritti, costituzionalmente garantiti, come la vita, premessa a ogni altro diritto.
L’obiezione di coscienza non è solo un’opinione personale o un sottrarsi all’osservanza della legge. Il Comitato nazionale di bioetica, nel documento del 30 luglio 2012, sottolinea che tutte le Costituzioni nazionali nate dopo Auschwitz «riconoscono la persona umana quale baricentro dell’ordinamento».
Così, l’obiezione di coscienza, espressione di libertà, diventa un diritto incluso tra i diritti fondamentali e inviolabili della persona umana.
La sua fonte è anche nella Costituzione italiana: negli articoli 2 e 19 sul diritto alla libertà religiosa, che include la libertà di coscienza; nell’articolo 21, sulla libertà di manifestazione del pensiero e nell’articolo 13 a tutela della più ampia libertà della persona. La stessa Corte costituzionale ha dedotto dalle norme citate che «la sfera intima della coscienza individuale deve esser considerata come il riflesso giuridico più profondo dell’idea universale della dignità della persona umana che circonda quei diritti» inviolabili, ed esige una tutela equivalente a quella accordata ai diritti stessi (sentenza n. 467/1991).
Eppure l’ambito della coscienza individuale, nel suo rilievo costituzionale anche per la vita di relazione, e non riducibile alle preferenze personali, trova i suoi oppositori. Al punto che, qualche tempo fa, un bando della Regione Lazio riservava il concorso a medici ginecologi non obiettori; analogamente, il bando di un ospedale nella Provincia di Rovigo mirava ad assumere biologi non obiettori per il Centro di procreazione medicalmente assistita.
Le leggi in gioco, quando si parla dell’obiezione di coscienza, sono: la n. 194 del 1978 sull’interruzione della gravidanza (art. 9); la n. 413/1993, sulla sperimentazione animale; la n. 40 del 2004, in materia di procreazione medicalmente assistita. Tuttavia, mentre per l’obiezione che risolve il contrasto tra il bene costituzionale del progresso scientifico (art. 9 Cost.) e la tutela degli animali, nessuna questione viene sollevata, l’abolizione dell’obiezione di coscienza viene invocata laddove il conflitto si prospetta tra le garanzie offerte alla donna che sceglie di ricorrere all’aborto e la coscienza del sanitario posta dinanzi al bene della vita del nascituro, quale diritto inviolabile costituzionalmente garantito (Corte cost. n. 35/1997). Oggi, è la legge sulle Dat (Disposizioni anticipate di trattamento), approvata lo scorso dicembre 2017, a far calare il silenzio sull’obiezione di coscienza.
Eppure, la Risoluzione del Consiglio d’Europa 1763 (7 ottobre 2010), sul diritto all’obiezione di coscienza nell’ambito delle cure mediche garantite per legge condanna ogni forma di discriminazione: «Nessuna persona, struttura ospedaliera o istituzione deve essere costretta, ritenuta responsabile o discriminata in alcun modo a causa di un rifiuto di eseguire, essere sede o assistere un aborto… o l’eutanasia o un qualsiasi atto che possa causare la morte di un feto umano o embrione». Ultima, e non certo per importanza, la cornice internazionale, che a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948 – art.18), riconosce il diritto alla libertà di coscienza, contemplato da ultimo anche all’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
La democrazia deve trovare un bilanciamento tra i valori costituzionali. In questo si distanzia nettamente dallo “stato etico”, che pretende di imporre per legge ciò che appartiene allo spazio del “dialogo”. E come è successo per l’obiezione di coscienza al servizio militare, che ha aperto la strada all’istituzione del servizio civile, così si potrebbe riflettere su un’obiezione che anche in ambito sanitario abbia non il senso di un “rifiuto”, bensì il merito di indicare altre vie percorribili, che in fondo anche la stessa legge 194 al suo interno prevede, e che forse non lascerebbero la donna nella solitudine di un dramma tutto suo. Così il “fine vita” o la “grave disabilità” non dovrebbero trovare eco in un grido d’abbandono, piuttosto segnare lo spazio d’incontro tra alleanza e condivisione, dinanzi al valore di ogni vita.