Dire, fare, partecipare. E, quando serve, dissentire

Dialogo con Elena Granata, professoressa di Urbanistica al Politecnico di Milano e vice presidente del Comitato Scientifico delle settimane sociali dei cattolici in Italia
Memoria vittime delle migrazioni in val Rosandra, sul confine tra Trieste e Slovenia Foto di Anna Maria Mozzi

Elena Granata, nota editorialista di Città Nuova, ha un compito di rilievo del Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane sociali dei cattolici in Italia che quest’anno si svolgeranno a Trieste dal 3 al 7 luglio, poco dopo le elezioni europee di giugno.

Le settimane sociali promosse fin dal 1907 hanno registrato una cesura fino al 1991 dopo l’edizione del 1970 dedicata a “Strutture della società industrializzata e loro incidenza sulla condizione umana”. Un tema attualissimo. Prendiamo il caso dei lavoratori di Firenze licenziati dalla ex Gkn, in mano ad un fondo finanziario, inascoltati nel loro progetto concreto di conversione ecologica della produzione. A cosa la partecipazione democratica se si rivela solo formale davanti ai poteri economici prevalenti?
La storia delle Settimane Sociali, in parallelo con le trasformazioni culturali del nostro Paese e i mutamenti politici, è una storia che ha visto alternarsi momenti di lucidità e coraggio intellettuale a momenti di stanchezza e di opportunismo, fino al silenzio e all’irrilevanza sociale. Non dico una cosa nuova se osservo questo processo discontinuo che ha connotato più in generale l’impegno civile dei cattolici italiani. Ovviamente, nella galassia delle voci e delle testimonianze, anche nei tempi più oscuri e timidi, ci sono stati politici, cittadini e imprenditori che si sono mossi in direzione opposta e contraria provando a sperimentare forme di condivisione e partecipazione dei lavoratori alla vita dell’impresa. Ma anche qui ci troviamo di fronte ad una contraddizione: possiamo pensare che basti la testimonianza di qualcuno? Possiamo accontentarci di azioni singole che non diventano parola, presa di posizione, cultura e politiche pubbliche? Io penso di no. Non credo ad un cattolicesimo di testimonianza, che si limiti a fare bene nel proprio recinto senza disturbare il manovratore (che di volta in volta può essere espressione di una parte politica o l’altra). Azioni che non si traducono in politiche per tutti sono destinate a non lasciare il segno. È un tradimento dei nostri valori.

Non si prevedono a Trieste documenti precostituiti al termine dei lavori, come anticipato dal vescovo di Catania, Luigi Renna, presidente della Commissione delle settimane sociali. È un bel segnale, ma come proseguirà il cammino?
Come Comitato scientifico, e in grande unità di intenti con il nostro presidente, abbiamo da subito pensato che forma e contenuto, messaggio e metodo dovessero coincidere. Ricordo che il nostro è il primo Comitato dove sono presenti donne e uomini, giovani e adulti, laici e consacrati. Una biodiversità che non si era mai vista prima.  Vengo alla domanda. Si può parlare di partecipazione e democrazia senza cimentarsi in un esercizio collettivo di confronto e di pensiero? Si può pensare che le Settimane sociali siano il luogo degli addetti ai lavori e non un momento di coralità di chi si riconosce in forme libere nei valori del cattolicesimo democratico?

Quindi, cosa avete pensato di fare?
Abbiamo preso tre decisioni importanti: 1. Cambiare nome: Settimane sociali dei cattolici in Italia (e non italiane) per includere quelle tante realtà immigrate che vivono nel nostro Paese ed esprimono modi altri e creativi di dirsi cristiani. Tra i relatori ci sarà Abdou Mbodj, il primo avvocato di origini africane del foro di Milano ad aiutarci a capire meglio tanti aspetti della cultura dell’accoglienza di chi viene da altri Paesi. 2. Aprire a tutti tanti contenuti della Settimana Sociale (le piazze, gli spettacoli, i momenti pubblici con papa Francesco, i momenti conviviali), in primis ai triestini che ospiteranno tutta manifestazione. 3. Ci saranno momenti di confronto tra i delegati e 15 piazze tematiche di confronto e di discussione aperte a tutti in città. Un grande e diffuso “pensatoio” intorno alle grandi questioni aperte del nostro tempo con ospiti che vengono dai più diversi mondi sociali (non solo cattolici, tanto per capirci!). Dall’esito aperto….

«Ma noi alla fine che posizione abbiamo verso l’Ilva?», chiese un giovane delle Acli alla fine della Settimane sociali di Taranto del 2021 in cui la pediatra Annamaria Moschetti disse che “la vita di un bambino vale più di tutto l’acciaio del mondo”. In questi anni, la situazione si è aggravata in quella città. Il timore di essere schiacciati dalla polarizzazione crescente impone di restare al livello degli alti valori di riferimento?Nessuno di noi ha la ricetta in tasca. Come comunità cristiane siamo forti sui principi (soprattutto morali, ahimè) e gli enunciati ma poi non siamo così attenti alla loro traduzione in pratiche e azioni. Da tempo abbiamo accettato di essere minoranza non troppo ribelle. Talvolta anche negli organi di governo della Chiesa c’è più attenzione alla visibilità che alla capacità di essere profetici e radicali nei nostri messaggi. Non sempre le comunità cristiane riescono a stare al passo con la radicalità che ci verrebbe chiesta dalle encicliche Laudato sì e Laudate Deum. Persino i movimenti post-conciliari sembrano più preoccupati di sopravvivere e di risolvere i propri problemi interni che di osare un pensiero più alto e non compiacente. Registro tanta paura nel proporre un punto di vista che si distingua, attento all’uomo, ai suoi diritti, alla natura. Paradossalmente è proprio il timore di restare schiacciati e diventare insignificanti a renderci tali. Che posizione abbiamo sull’immigrazione, sulla pace, sul lavoro, sulla finanza, sull’ambiente, sulla nostra storia e costituzione antifascista? Il silenzio prudente non può essere un’opzione ma spesso purtroppo lo è.

Nelle settimane sociali di Cagliari del 2017 dedicata al lavoro, rimase sottotraccia il ricatto occupazionale di una fabbrica di armi presente nell’area del Sulcis. In che modo, oggi, l’edizione di Trieste riuscirà ad affrontare le scelte decisive dell’Italia sulla corsa al riarmo nella terza guerra mondiale a pezzi?
La scelta di Trieste, città di confine, città che si affaccia sull’Europa non è una scelta neutra. Andare a Trieste significa stare sul confine di un’Europa che sta perdendo le ragioni stesse per cui è nata: un’idea di concordia e di fratellanza (e sorellanza) tra popoli che si erano fatti la guerra. Trieste è la città dove arrivano con i piedi piagati dalla fatica, gli immigrati delle guerre oscene che noi stessi alimentiamo con le nostre armi, dalla Siria, dall’Afghanistan, dai Paesi del Mediterraneo, quelli della rotta balcanica; Trieste è la città di Franco Basaglia e della rivoluzione intorno alla salute mentale e all’idea stessa di istituzione totale; Trieste è la città dei mille culti, del dialogo tra credi religiosi, delle tante lingue e culture; Trieste è la città delle intelligenze, dei saperi, delle scienze, dove l’università ha saputo promuovere cultura e competenze.

Ci sono tanti segnali che arrivano da Trieste….
L’arrivo a Trieste del nuovo vescovo don Enrico Trevisi, uomo capace di stare in mezzo alle persone, di dialogare, di lasciare spazio e mettersi in ascolto delle voci più capaci della società civile, è il segnale di un tempo nuovo per la città. Le rivoluzioni nascono così. Dal basso, da un piccolo gruppo di persone che si mettono in cammino, capaci di guardare oltre le miserie e le crisi che pure tutti vediamo. Se tutto si chiudesse con un amen dopo la messa del Papa del 7 luglio avremmo certamente combinato poco. Se avremo insieme riscoperto il gusto e il senso del nostro dire, fare e partecipare, forse potremo dire che non tutto è ancora perduto. C’è grande attesa, c’è un grande bisogno di trovare strade comuni.

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