Dipendenti o creativi?
I bambini cresciuti senza favole hanno maggiori difficoltà ad esprimersi. Importante trovare tempo e modi per non lasciarli soli.
C’era una volta e adesso non c’è più, o quasi. Potrebbe essere questo il titolo di un racconto che ha per soggetto i bambini di oggi a cui nessuno narra più le favole. Bambini impegnati a districarsi tra piscina, palestra, playstation e tv, spesso in compagnia di sé stessi o che vivono in quella che Carmen Belloni, sociologa del dipartimento di Scienze sociali dell’università di Torino ha definito «solitudine sorvegliata», quella condizione cioè in cui non si è fisicamente da soli in casa, ma la persona adulta di turno – mamma, papà, nonni o tata che siano – sono… in tutt’altre faccende affaccendate.
E non mancano i dati che evidenziano quanto poco tempo i bambini trascorrano quotidianamente con entrambi i genitori, in media 45 minuti, secondo i dati Istat.
Immaginarsi quindi se in questo poco tempo a disposizione può trovare spazio quel momento “magico” che tanti di noi ricordano con dolcezza: papà o mamma accanto al nostro lettino a stimolare il nostro sonno con Biancaneve, Cappuccetto rosso, La spada nella roccia, Peter Pan…
Che ci sia una differenza tra bambini a cui vengono lette le favole e gli altri che non hanno fatto questo tipo di esperienza è dimostrato anche da varie ricerche. I vantaggi derivanti da una stimolazione linguistica in età prescolare sono stati dimostrati, ad esempio, da uno studio fatto dal pediatra Barry Zuckerman alla Boston university school of medicine, come dal dottor Stefano Vicari, responsabile dell’Unità operativa di neuropsichiatria infantile al Bambin Gesù di Roma. Un recente studio promosso dal ministero dell’Istruzione britannico, ha evidenziato poi come meno dialogo, meno spazio, meno favole (appunto) – sia per il maggior tempo richiesto dal lavoro da un parte, che per il proliferare di videogiochi e nuove tecnologie dall’altra –, abbiano portato a un risultato negativo: in Gran Bretagna 100 mila bambini di cinque anni, cioè il 18 per cento del totale, non hanno raggiunto il livello di alfabetizzazione che sarebbe normale a quest’età, anzi si esprimono come farebbe un bambino di un anno e mezzo.
Da qui l’allarme a non delegare a televisione e videogiochi la formazione del linguaggio e del pensiero dei propri bambini, a far sviluppare in maniera armonica la vista (il tempo dedicato alle immagini) e l’udito (spazio per l’ascolto).
È evidente che la fenomenologia non riguarda solo gli inglesi e neanche semplicemente l’aspetto del linguaggio. Anche noi italiani registriamo una tendenza simile con conseguenze problematiche su più fronti.
Cosa c’è infatti dietro una favola? Intanto, se a leggerla è un’altra persona c’è l’amore di quella persona per quel bambino; c’è poi la capacità di mettere in moto la fantasia, di scoprire nuovi termini, di stimolare l’intelligenza e la creatività. C’è anche la possibilità di identificarsi in un personaggio, di capire che nella vita non mancano le difficoltà, ma si possono superare e alla fine si può arrivare a vivere «felici e contenti».
C’è poi l’opportunità di sviluppare quella dimensione fantasiosa fondamentale nello sviluppo del bambino.
E, perché no, anche una dimensione terapeutica. Ne sa qualcosa Lauretta Perassi, autrice di favole anche per le pagine dalla nostra rivista, che da tredici anni porta i suoi racconti nel reparto di oncologia pediatrica del policlinico Umberto I a Roma.
«La grande rivelazione, per me, avvenne il giorno in cui lessi a Maria Chiara Origami – racconta –, la favola che narra la storia di un fiore di carta. In essa è descritta la sofferenza di un fiore che sta per appassire: “Il fiore sentì le sue forze venir meno, allora raccolse i petali attorno a sé e non pensò più a nulla”. Maria Chiara mi fermò, per osservare: “Origami, sono io!”. Scoprii così quale strumento prezioso avevo tra le mani per raggiungere il cuore dei bambini, il loro dolore, le loro paure».
Quanto basta per andare avanti nell’accompagnare tanti bambini in fase terminale. «Un ricordo, per tutti – continua la nostra autrice –. Tra le tante mie favole Giuseppe, tredici anni, amava in modo particolare Il Bosco dei lillà che termina con queste parole: “Le mie forze stanno venendo meno. E sento il profumo dei lillà farsi sempre più intenso, sempre più vicino. Ma non ho paura perché so che sarà là, in quel bosco che ho tanto amato, che riaprirò gli occhi”. Un pomeriggio chiese alla mamma di leggergliela ancora una volta. Poche ore dopo partì per il “Bosco dei lillà”, quel luogo dove la luce splende in eterno».
Favole che fanno bene al cuore e che servono ai piccoli, ma anche agli adulti, non solo per l’atmosfera speciale che la loro lettura crea, ma anche per l’aiuto che danno a “tornar bambini”, ovvero a recuperare quell’incanto, quella freschezza e semplicità che diminuiscono col passare degli anni.
E non dimentichiamo infine la funzione unificante che certi racconti esercitano. «Mangia che altrimenti arriva il lupo», ha accompagnato l’infanzia dei bambini di ogni latitudine, anche se in Cina il lupo diventa una tigre e in Iran Cappuccetto rosso è accompagnata da un ragazzo. Ma ciò non disturba il giro del mondo di tanti racconti che hanno risuonato e si spera continuino a risuonare nelle più diverse lingue.
LA PAROLA AI LETTORI
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