Dio ama le pecore

Sono miti, semplici, umili: forse hanno qualcosa da insegnarci oggi?
Pastore con il gregge

È chiaro: l’Eterno ha un debole per le pecore. Quei timidi e simpatici ovini gli hanno rubato il cuore. Si capisce fin dalle prime battute della Bibbia. Abele era pastore di greggi, Caino lavorava la terra. Tutti sanno come andò a finire. Dio apprezzò la pecora arrostita in sacrificio da Abele, ma non gradì l’offerta agreste di Caino. Questi s’offese, si lasciò accecare dall’invidia e ammazzò il fratello. Iniziarono le guerre. Poi, nelle ultime pagine della Bibbia cristiana, nell’Apocalisse, il Figlio di Dio ama identificarsi col simbolo dell’Agnello, il “fanciullo” della pecora. E sarà proprio l’Agnello a riportare la pace sulla Terra e far cessare le guerre, iniziate per colpa, seppur involontaria, d’una pecora arrostita.

 

Le pecore accompagnano pagine incantevoli del grande libro della tradizione giudaico-cristiana. Si racconta del giorno in cui, nel paese di Carran, arrivò al pozzo la pastorella Rachele, «bella di forme e avvenente d’aspetto». Proprio lì era giunto da un lungo viaggio anche il giovane Giacobbe, mandato dal padre in quella terra d’origine a cercar moglie. I due incrociarono gli sguardi. Un colpo di fulmine. L’entusiasta Giacobbe le corse incontro e la baciò… poi pianse ad alta voce. Non sapeva nemmeno chi fosse quella giovane e l’aveva baciata! Probabilmente si vergognò di quel gesto impulsivo. Dovette poi lavorare 14 anni come custode delle pecore del padre di Rachele prima che questi gliela concedesse in sposa. Ma lui non mollò. Si sposarono e s’amarono fino alla fine dei loro giorni. Un amore tutto slancio, come ogni amore dovrebbe essere, sospirato per 14 anni tra le greggi. E quando Dio volle cercarsi un re degno di governare il suo popolo, non andò a sceglierlo fra i potenti, ma fra le pecore al pascolo: il fulvo Davide.

 

I Vangeli hanno un feeling speciale con questi animali. Accolto alla nascita da pastori e pecore, Gesù crebbe e divenne il rabbi di Nazareth. Alla gente semplice che l’ascoltava, narrava la storia d’una pecora smarrita. Poi, a bruciapelo, come sanno fare i veri maestri, poneva la domanda: «Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le 99 e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova?». Altre volte parlava del pastore buono che, quando vede arrivare il lupo, non fugge, come il mercenario, ma lo fronteggia, disposto a dare la sua vita per salvarle. Egli stesso amava definirsi il “buon pastore”. A volte guardava quelli che lo seguivano e aveva compassione, perché li vedeva stanchi e tribolati, come pecore senza pastore. E a quelli che lo avrebbero aiutato non affidava un compito tranquillo: «Vi mando come pecore in mezzo ai lupi».

 

Ben presto nella cristianità il termine “gregge” venne ad indicare l’insieme dei fedeli, quello di “pastore” il responsabile della comunità. Tante Chiese protestanti chiamano le loro guide “pastori”. Anche la madre di Gesù dimostrò una predilezione per le pecore. Quando volle mostrarsi, apparve alla povera pastorella Bernadette, confidò segreti a tre pastorelli a Fatima, parlò a Melanie e Maximin, nei pascoli sui monti a La Salette.

 

La nostra cultura fiorì tra le pecore. La pastorizia, nata nel Medio Oriente seimila anni fa, creò un’inossidabile simbiosi tra pecore e pastore che s’occupava di loro, le guidava in cerca di nuovi pascoli, le proteggeva da animali predatori e ladri, le assisteva nei parti. Loro gli davano latte, lana, carne. Accanto alle pecore, coricato di notte sotto il firmamento grondante di stelle, rifletteva e s’interrogava sulla vita. Accanto ai fuochi, con altri pastori, imparò a raccontare storie e ascoltarle, tramandando tradizioni. E divenne pure poeta. Pensando alla sua donna lontana, inventò le meravigliose parole del Cantico per cantarne la bellezza: «I tuoi denti come un gregge di pecore tosate, che risalgono dal bagno; tutte procedono appaiate, e nessuna è senza compagna».

 

Perché la predilezione di Dio per le pecore? Probabilmente per la loro mitezza, semplicità e umiltà. La mansuetudine delle pecore oggi pare fuori luogo: piacciono le provocazioni, gli uomini e le donne rampanti, aggressivi, vistosi. È decisivo mostrarsi forti, dinamici, sexy, spavaldi, vincenti, incalzanti, audaci. La timida pecora, che abbassa lo sguardo mansueto di fronte allo sconosciuto, che s’addossa alle compagne comprendendo l’importanza di vivere nel gregge, che è assai intelligente ma per questo non lo urla ai quattro venti, che guarda con infinita riconoscenza e dolcezza il suo pastore, che non si ribella neppure di fronte a chi intende ucciderla… Beh, la pecora pare proprio l’animale meno adatto ai nostri giorni. Però Dio le pecore le ha amate dall’alba del mondo fino ad oggi. Che questa sua fedeltà debba far riflettere un po’ anche noi?

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